Il 2016 dell’economia mondiale è caratterizzato da una doppia trappola che non può non incidere sull’andamento di quella italiana e sui margini di politica economica del Paese. Le sue determinanti sono due: l’escalation del debito complessivo mondiale (Governi, imprese, famiglie) nonostante le politiche di austerità perseguite per anni; l’inflazione raso terra derivante sia da elementi specifici che da più ampie ragioni macroeconomiche. Insieme causano una doppia trappola: quella della liquidità (esplorata da John Maynard Keynes e riassunta da Guido Carli con il detto il cavallo non beve) e quella dell’incertezza. Operano ambedue nella stessa direzione: inducono a risparmiare, a tesorizzare per tempi verosimilmente ancora più bui, a posporre progetti di investimenti (pubblici e privati).



Di conseguenza, l’apparato produttivo (dagli impianti al capitale umano) si deteriora e la crescita (lo strumento più efficace per ridurre il debito) o non parte o resta flebile e fragile. Il potenziale dell’Italia va visto in questo contesto: anche con politiche economiche ottimali (sotto il punto di vista dello sviluppo e della distribuzione) resteremo al piede non tanto a ragione delle regole europee in materia di politica di bilancio, ma perché in termini di Pil (per indicatore vago e carente che sia) siamo passati dal sesto al nono posto in una classifica in cui rischiamo di scendere ancora di più. E abbiamo, quindi, poca voce in capitolo sui grandi temi d’economia internazionale.



Un’occhiata a volo d’uccello al debito. Il Premio Nobel Michael Spence, ha ricordato, su Il Sole 24 Ore del 30 dicembre 2015, che dall’inizio della crisi l’indebitamento mondiale “è cresciuto di 57 mila miliardi di dollari”. Se si tiene conto del debito in essere nel 2007, siamo a quasi 240 mila miliardi di dollari, secondo le stime del McKinsey Global Institute, ossia a oltre tre volte il Pil mondiale. Le politiche monetarie “accomodanti”, se non attizzano una rapida crescita, minacciano di aggravare la situazione: il Quantitative easing ha aumentato il debito dell’eurozona di circa 5 mila miliardi di dollari. E non si toccano ancora i suoi effetti sull’aumento di produzione e di occupazione.



In passato, le crisi debitorie mondiali sono state risolte o con le guerre o con la rapida crescita o con l’inflazione. Abbiamo già una guerra civile in corso nel Medio Oriente e nel Nord Africa, una ventina di guerre locali in Africa e Asia, e non è certamente auspicabile un aumento o un’intensificazione dei conflitti. Le opportunità di crescita sono strangolate dalle trappole della liquidità e dell’incertezza.

E l’inflazione? Perché resta bassa? Lo spiega uno studio dell’Economist Intelligence Unit la cui sintesi è stata diffusa il 2 gennaio. Nel breve termine (ossia i prossimi 12-18 mesi), l’inflazione aumenterà leggermente negli Stati Uniti e in Europa, ma viene frenata dalla deflazione importata dai mercati emergenti e dalla caduta (o stagnazione) dei prezzi del petrolio (una strategia ad arte per spiazzare dal mercato Paesi, i cui costi di estrazione sono più elevati di quelli della Penisola arabica e del Medio oriente).

È una strategia costosa per i Paesi che la applicano, ma loro intenzione è l’aumento del loro peso politico mondiale. Inoltre, la Cina sta esportando deflazione a ragione di politiche che hanno messo eccessivamente l’accento sull’immobiliare, ora in grave crisi, lasciando alcune industrie con un’enorme capacità di produzione non utilizzata (principalmente la siderurgia, dove il Celeste Impero inonda sottocosto i mercati mondiali). Infine, l’andamento asimmetrico della produttività nell’area atlantica (a buon livello negli Usa, scoraggiante in Europa, stagnante da lustri in Italia).

La storia economica insegna che la combinazione di alto debito e bassa inflazione ha sempre rappresentato un’alta tassa elettorale per i Governi in carica.