Oggi parliamo di Borsa, per l’esattezza di Wall Street. Come è andato l’anno appena concluso per la piazza azionaria Usa, la quale ha beneficiato della politica di tassi a zero della Fed fino al 16 di dicembre scorso? Male, in realtà, almeno rispetto ai mercati europei: sia lo Standard&Poor’s 500 che il Dow Jones hanno chiuso l’anno in negativo, dando vita alla peggior performance dal 2008, mentre il Nasdaq ha chiuso il 2015 a +5,5% grazie al boom dei titoli delle biotecnologie e a quelli tecnologici, Apple esclusa. Insomma, nulla di entusiasmante per un mercato che ha avuto 11 mesi di tassi a zero che garantivano alle aziende di indebitarsi sul mercato obbligazionario e utilizzare poi quel denaro per operare buybacks dei propri titoli, al fine di abbassare il flottante, tenere alte le valutazioni e, soprattutto, pagare dividendi e bonus.



C’è però un problema maggiore ed è rappresentato plasticamente nel primo grafico a fondo pagina: il mercato statunitense non è andato pesantemente in negativo unicamente per le performance di quattro titoli, i cosiddetti Fang, ovvero Facebook, Amazon, Netflix e Google. Il secondo grafico ci mostra infatti come il 70% dei titoli statunitensi tradasse a fine anno al di sotto della loro media a 200 giorni. Alla fine del 2014 i titoli Fang avevano un capitalizzazione di mercato combinata pari a 740 miliardi di dollari e utili per 17,5 miliardi, viaggiando su multipli di utili per azione di 42x. Alla fine di novembre 2015, gli stessi titoli avevano market cap combinato per 1,2 triliardi di dollari, ovvero avevano guadagnato 450 miliardi di capitalizzazione o il 60% in soli 11 mesi, a fronte però di utili in aumento solo del 13%.



Di più, il 26 dicembre del 2014 il market cap totale dell’indice Standard&Poor’s 500, escludendo le Fang, era di 17,70 triliardi di dollari, mentre alla fine di novembre di quest’anno era a 17,26 triliardi di dollari, quindi riflettendo un perdita di valore del 2,5% o quasi mezzo triliardo di dollari. Come mai? Semplice, la fine della politica di tassi a zero della Fed, la quale ha portato la cosiddetta “smart money”, ovvero gli investitori istituzionali, a vendere titoli durante tutto l’arco dell’anno appena concluso, senza però inviare segnali di panico al mercato perché in contemporanea compravano Fang e mantenevano le valutazioni degli indici in positivo.



Da inizio anno a novembre 2015 Facebook ha guadagnato il 31%, Amazon il 117%, Netflix il 154% e Google il 41%: gli altri titoli? Tutti in territorio di bear market o quasi, come dimostrato dal secondo grafico. E che gli istituzionali abbiano venduto, concentrando guarda caso le vendite proprio a ridosso di fine anno quando la Fed si avvicinava al primo aumento dei tassi dopo 83 mesi di fila a livello zero, ce lo dimostra il terzo grafico, in base al quale vediamo come i clienti istitutionals di Bank of America abbiano venduto titoli azionari per otto settimane di fila, avvicinandosi a fine anno.

Ci sono infatti due flussi da prendere in considerazione: il primo è quello di hedge funds e clienti retail, i quali si sono di fatto annullati l’un l’altro, visto che i primi hanno venduto titoli per 2,8 miliardi di dollari e i secondi ne hanno acquistati per 2,2, mentre il secondo è quello degli istituzionali, i quali hanno di fatto venduto per undici mesi di fila da inizio anno, arrivando a un totale di outflow di posizioni per un controvalore di 26,8 miliardi di dollari. Insomma, come al solito, con l’avvicinarsi della correzione, le banche scaricano sul parco buoi ciò che vogliono togliersi dai bilanci. E il parco buoi bela e compra.

E torniamo ora alle Fang e facciamolo considerando le prestazioni di questi titoli più sul medio termine: da metà 2012, infatti, Facebook ha guadagnato il 401%, Amazon il 186%, Netflix il 1503% e Google il 133%. Potranno continuare a macinare guadagni simili? No. Primo perché il mercato azionario ha perso la sua spinta propulsiva, secondo perché la Fed ha alzato i tassi e di fatto dimezzato le attese di buybacks e terzo perché riecheggiano sinistri rimandi alla bolla tecnologica di fine anni Novanta. Anche all’epoca c’erano infatti quattro titoli che venivano definiti i four horsemen, i cosiddetti Cimq, ovvero Cisco, Intel, Microsoft e Qualcomm e guardate il primo grafico a fondo pagina, il quale ci mostra la traiettoria pressoché identica di Cimq e Fang nel periodo 1995-2000 e 2012-2015, visto che i primi nei tre anni e mezzo che portarono a metà del 1998 avevano guadagnato insieme circa il 500%, in linea con l’attuale performance delle Fang nello stesso arco di tempo. E cosa accadde ai titoli Cimq a quel punto, ovvero a metà del 1998? Vissero tre mesi di consolidamento e poi esplosero ancora più in alto, tanto che nell’anno e mezzo che seguì il valore combinato di quei quattro titoli quadruplicò, prima di collassare nel 2000.

Se la correlazione dovesse essere giusta, il composite delle Fang avrebbe quindi ancora da correre e parecchio, passando dall’attuale 600 a circa 3000. E la correlazione tra Cimq e Fang non è dovuta unicamente alle distorsioni su scala lineare. Ora, ve lo dico subito: questa non è una previsione dell’andamento di quei titoli, né tantomeno un consiglio di investimento, è unicamente un articolo che vuole dimostrare due cose: la correlazione storica fin qui occorsa e la distorsione che troneggia oggi a Wall Street. Punto. Il secondo grafico a fondo pagina ci mostra come sia andata a finire la storia per i titoli Cimq: sarà lo stesso anche per le Fang? Correranno ancora per circa un 400% di aumento dal livello attuale per poi dar vita all’esplosione della bolla o la loro traiettoria è già in correzione? Come si dice a Wall Street, infatti, anche gli orsi devono mangiare.

Ora spostiamoci da Wall Street e ampliamo il raggio di valutazione: i mercati equity globali, infatti, si misurano attraverso l’Msci Developed World Index e sono andati in trend ribassista fisso dal picco del maggio 2015, avendo toccato i minimi a ottobre. Al livello attuale, stando a valutazioni di Societe Generale, siamo solo poco al di sopra di dove l’indice globale si trovava all’inizio del 2013 e meno dell’1% sopra il picco del 2007: in altre parole, il mercato azionario ha perso il cosiddetto momentum e la conseguenza peggiore è che il debito sottostante alle performance azionarie ora venga a reclamare il conto. A partire dal 2007 la ripresa è stata molto discrepante, con soltanto gli indici Usa, svizzero e danese che hanno superato i picchi dell’ottobre 2007 a livello di prezzi espressi in dollari: il Regno Unito è in calo del 34% e l’Msci Eurozone addirittura del 40%.

 

 

Le ragioni per performance così poco incoraggianti sono intuitive, visto che a differenza del Giappone, né eurozona, né Regno Unito hanno vissuto una ripresa degli utili, né in termini di dollari, né di valuta locale. Di più, i profitti in entrambe le regioni sono ancora del 45-55% in meno dei massimi del 2007, stando sempre a rilevazioni di Msci. Ora, guardate il grafico a fondo pagina: ci mostra una realtà con cui, purtroppo, temo dovremo fare i conti. Fino a oggi tutti si sono posti il problema dell’alto ricorso al leverage nel mercato azionario Usa, di fatto mantenuto in vita proprio dall’eccesso di indebitamento legato ai buybacks. Di fatto, i titoli corrono, le valutazioni salgono ma sale – e molto – anche l’indebitamento sottostante a quei titoli, ovvero i debiti in cui sono incorse le aziende Usa.

Questo grafico ci dice una cosa, però, ovvero che la questione non è più solo legata agli Stati Uniti, visto che sia il debito netto nominale che il debito su Ebitda delle aziende britanniche non è mai stato così alto. La striscia rossa, quella relativa all’eurozona, se vedete bene ha subito una traiettoria al ribasso tra il 2014 e il 2015, quindi le aziende europee non finanziarie hanno dato vita a un processo di deleverage o abbattimento del carico di debito, ma il livello rimane comunque alto e potrebbe subire l’effetto domino negativo di Usa e Regno Unito in caso il rialzo dei tassi della Fed portasse davvero, nei primi mesi di quest’anno, a una sorta di correzione strutturale.

Di più, la parte sostanziale dell’incremento di debito del mercato azionario britannico è legato al settore minerario, quindi se il trend dei prezzi delle commodities non dovesse invertire, probabilmente la profittabilità di quelle aziende calerà ancora e potrebbe innescare in qualcuno la perversa volontà di indebitarsi ulteriormente per far fronte al calo dei profitti.

Insomma, dopo il rischio legato al debito sovrano, la prossima crisi potrebbe scaturire e poi emanarsi dal debito corporate che fa da sottostante alle performance degli indici equity. Alla luce di questo, quando guardate i corsi azionari, non limitatevi a guardare le chiusure e i minimi/massimi intraday, scavate un po’ più a fondo. Capite chi o cosa è realmente market mover e cosa sostiene i corsi, allora comincerete a vedere le crisi arrivare in anticipo. Da piccoli segnali, paradossalmente spesso legati a performance tanto positive da risultare anomale e contrarian come quelle dei Fang. Attenzione, c’è troppa calma in superficie. Sott’acqua, qualcosa comincia a smottare.