I dati Eurostat rielaborati dal ministero dello Sviluppo economico diffusi nell’ultimora, sotto il nome di “cruscotto congiunturale”, presentano interessanti indicazioni che sfuggono alle cronache d’Italia abituate a riportare numeri senza saperli leggere. Ma, ahimè, questo è il data journalism. Due brevi considerazioni, ma molto esplicative: per quanto riguarda la produzione industriale, l’Italia ha recuperato il 3% rispetto ai minimi della fase recessiva, la Gran Bretagna il 5,4%, la Francia l’8%, la Germania il 27,8% (!). In questi paesi la grande impresa è molto più diffusa e i corrispettivi mercati investono più di noi nel capitale umano, offrendo quindi posti di lavoro di elevata e superiore qualità. Ciò, negli anni della grande crisi, ha comportato maggiore capacità di tenuta e ha facilitato una più dinamica ripresa. Unica eccezione di questo discorso è la Spagna, molto simile all’Italia per tessuto produttivo: l’importante riforma del fisco di Mariano Rajoy – di cui abbiamo più volte scritto su queste pagine – ha sicuramente offerto benefici al lavoro (+7,5% produzione industriale) e ai consumi. 



Per quanto riguarda invece i dati occupazionali riferiti ai giovani, il gap con gli altri paesi appare considerevole (Italia +0,9% dai minimi della fase recessiva, GB +4,2%, Germania +2,7%, Spagna +1,9), ma il nostro Paese resta quello ove l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro è il più tardivo, in particolare rispetto a GB e Germania, dove l’età del primo impiego è mediamente attorno ai 16 anni. Ora: se per giovane disoccupato si intende la fascia 15-24 anni, quanti sono i giovani disoccupati italiani se in Italia il primo impiego è attorno ai 22? Chiaro che resta grave il problema Neet (oltre 2 milioni di giovani italiani 15-29enni che non studiano, né lavorano), ma questa è un’altra storia.



Fatte queste considerazioni, la crisi è stata uno tsunami tale per le economie del sud Europa che le difficoltà di crescita restano. Ricordiamo, tuttavia, che la migliore performance dell’occupazione in Europa riferita all’ultimo trimestre è avvenuta in Italia e che, come si diceva in un recente articolo, le dinamiche dell’economia globale sono tali per cui il futuro sarà sempre più “artigiano”: ciò offre importanti possibilità per l’Italia che ci auguriamo tutti il nostro Paese sarà capace di sfruttare.

Tenendo presente questo scenario, si pensi ora a quello che politicamente sta succedendo in Europa e che vede protagonista Matteo Renzi, da una parte, e Angela Merkel, dall’altra. Per quanto il nostro Premier si spenda per sottolineare – anche ieri sulle pagine de La Stampa – che non ci sono particolari tensioni (difficile pensare che sulla questione gasdotti non ce ne siano…), è evidente che l’Europa sta facendo i conti con un interlocutore per certi versi nuovo. Vero, anche Tremonti chiedeva flessibilità all’Europa, ma la Trojka non si fidava di Berlusconi e sappiamo tutti com’è finita. Di Renzi si fida un po’ di più, il suo governo ha fatto quelle riforme invocate da Bruxelles per aprire la “pratica flessibilità”.



La posizione di Renzi nei confronti della Merkel e dell’Ue, che ora si manifesta in modo evidente, ha radici lontane. La staffetta Letta-Renzi è proprio ispirata da ragioni europee: non dimentichiamo che nel giro di una settimana (febbraio 2014) prima Confindustria, poi il Corriere della Sera e poi Repubblica sfiduciarono completamente il governo Letta, addirittura attaccando (leggi Corsera) il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che per quell’esecutivo si era molto speso (tanto che era chiamato “il governo del Presidente”). Ciò ci dice quanto il mondo del potere economico e finanziario di casa nostra avesse voluto quel cambio di guida del Paese, proprio per smuovere le acque a Bruxelles, visto che Letta era completamente incapace, soprattutto per la sua debolezza politica, di far valere il nostro peso nell’Unione.

Renzi sin dall’inizio del suo mandato parla della flessibilità che l’Italia deve avere in relazione al Fiscal compact e di quanto il Bel Paese, per la sua posizione così importante nell’area mediterranea, debba crescere la sua voce in Europa. Il premier sta proprio facendo questo, naturalmente ha scelto il momento a lui propizio e sa che può vincere questa sfida. I motivi sono sostanzialmente quattro. 

In primis, come si diceva, l’Europa si fida di Renzi: l’Italia ha fatto le riforme e si è dimostrata interlocutore affidabile. In secondo luogo, non ci sono dubbi che gli indicatori economici sono positivi: il Pil, la produzione industriale, i consumi, il credito e, anche, l’occupazione – seppur meno di altri paesi come abbiamo visto – sono in crescita. Terzo punto: il Grexit è uno spartiacque importante e proprio Renzi è quella voce che sta facendo capire all’Europa che il rigore dei conti di per sé non porta da nessuna parte, ma va inquadrato in un’ottica di sviluppo; deve cioè essere al servizio della crescita: questa è la flessibilità che Renzi chiede e che è già stata concessa alla Spagna che, guarda caso, è tra i paesi con i numeri più interessanti. In ultimo: Renzi ha un consenso tale che, se l’Europa dovesse reagire in contropiede alle sue richieste, in Italia non sarà delegittimato (come invece è successo a Berlusconi); anzi, sarà molto sostenuto, e il premier ne è pienamente consapevole.

Ecco perché il Primo ministro italiano ha buone chances di vincere questa sfida e di passare alle cronache europee come colui che ha affermato il nuovo corso post-austerity dell’Ue, di cui il Vecchio Continente ha molto bisogno. Ma chiedere al data journalism di raccontare questo scenario è chiedere troppo, dovrebbe per prima cosa capirlo…

 

Twitter @sabella_thinkin