L’Ilva ce la può fare. E ce la può fare all’insegna dell’italianità, non per appuntare una coccarda tricolore sul bavero di nessuno, ma per aumentare le possibilità – diversamente non molte – che gli 11 mila dipendenti dell’acciaieria più grande d’Europa, quella di Taranto, conservino il loro posto di lavoro. L’invito a “manifestare interesse” rivolto ai pochi gruppi che possono investire sull’Ilva, varato dal governo e pubblicato il 5 gennaio, va però considerato per quel che è: un obbligo procedurale rispetto alle norme europee e non un contratto come un altro.
I soggetti sicuramente interessati all’Ilva sono anche e forse soprattutto alcuni tra i suoi concorrenti internazionali che la comprerebbero solo per lasciarla lentamente colare a picco, “ammortizzata” nei costi dal nostro welfare.
L’Ilva migliore, per i colossi europei dell’acciaio – compresi quelli tedeschi, che in Italia hanno già molto da farsi perdonare – è un’Ilva chiusa. La capacità produttiva d’acciaio nel mondo occidentale è eccedentaria, quasi come negli anni Ottanta, quando l’Italia dovette sacrificare l’Italsider di Bagnoli sull’altare degli equilibri continentali, e oggi quella logica perversa potrebbe riproporsi nella nuova Europa degli egoismi in cui rischiamo, con buona pace dell’animosità di Renzi, di fare la parte dei vasi di coccio.
Anche perché – diciamocelo chiaro – alcuni dei “target” dettati all’Ilva di Taranto dall’ordinamento sono surreali. Chi sostiene, ad esempio, che i cosiddetti “parchi minerali” potrebbero essere coperti, come prescritto, entro l’anno, non sa di star affermando la possibilità di realizzare una sterminata tettoia, di vari chilometri quadrati, alta 70 metri dal suolo, in pochi mesi: una roba che neanche l’Expo di Dubai 2020. Chiunque tenti di richiamare l’Ilva, e l’Italia con essa, al mancato adempimento di simili diktat inattuabili la farà in mala fede.
È possibile, invece, la ripartenza dell’altoforno 5, in sigla Afo 5, che produce (anzi: produrrebbe) 11 mila tonnellate al giorno di ottimo acciaio, ed è il più grande d’Europa. È possibile, ma servono soldi: e quelli dei Riva, richiesti dallo Stato italiano a indennizzo degli scempi ambientali, in Svizzera stanno e in Svizzera resteranno. La roccaforte del capitalismo privato europeo per tutto il ventesimo secolo, pur se ormai detronizzata da questo discutibile primato per l’iniziativa ancor più spregiudicata dei nuovi paradisi fiscali, non mollerà certo su una controversa questione di diritto privato internazionale.
E allora, se quel miliardo e duecento milioni di euro dei privati inutilmente rivendicato dallo Stato resteranno indisponibili, chi finanzierà le opere di bonifica ancora necessarie e di rilancio industriale? La cordata che rileverà l’Ilva? O Papà Natale? Buon senso dice che l’unica entità in grado sia di finanziarie bonifiche e rilancio che di tenere l’Ilva ancorata all’Italia è la Cassa depositi e prestiti. Già: ma avrà la volontà politica di farlo? E sarà adeguatamente coperta dal governo nei confronti di Bruxelles, che dopo aver permesso a chiunque di erogare aiuti di Stato a tutti, si ricorda di fare la faccia feroce sempre e solo con l’Italia? Bella domanda.
Un argomento nuovo c’è, però, che aiuterebbe il governo italiano. Si chiama COP21, ed è l’insieme degli accordi firmati a Parigi dagli Stati avanzati per la tutela dell’ambiente. L’idea di trasformare la grande Ilva di Taranto in un’acciaieria a basso impatto ambientale (low carbon, dicono quelli che parlano difficile) è un’idea vincente perché “politicamente corretta” e sdogana anche il ricorso agli aiuti di Stato. Anche qui avremmo dei tedeschi di traverso, quelli del colosso Saltzgitter, ma sono gli unici per ora a essere low carbon, e lo spazio per l’Ilva non mancherebbe.
Non basterà questo primo semestre 2016 appena iniziato: per vendere bene l’Ilva ci vorrà molto probabilmente più tempo. E più soldi per sostenere la transizione, pubblici naturalmente. E un piano industriale che punti tutto sulla flessibilità. Un piano che probabilmente è già nei cassetti del management, ma richiede coperture per essere implementato: finanziarie, oltre che politiche. O meglio: le due cose insieme. È molto improbabile che da subito un colosso siderurgico internazionale punti sul piatto dell’Ilva i 500-1000 milioni necessari al rilancio. Potrebbero farlo i fondi di private-equity, ma sarebbe la prima volta: preferiscono bersagli meno ingombranti. Può farlo, transitoriamente, lo Stato. Occupazione al Sud e ambiente sono due nobili scopi. E produttività qualificata, naturalmente.
Anche perché, nonostante due anni terribili, l’agilità gestionale dell’Ilva è ancora rilevante. Nel 2015, nonostante il drastico calo del mercato mondiale dell’acciaio e le difficoltà gestionali legate alla lunga e complessa transizione in atto, l’Ilva è per esempio riuscita a produrre 4,9 milioni di tonnellate, quanto nel 2014. E in un anno che si è concluso con un calo mondiale della produzione siderurgica nell’ordine del 2,8%, l’Ilva è riuscita a mettere a segno risultati importanti anche sul fronte della raccolta ordini: nel mese di novembre 2015 è stata superiore del 20% rispetto a ottobre, che era già stato il mese migliore dell’anno (+23% su settembre).
Non bastano questi numeri a garantire il rilancio. Ma dimostrano che le basi sono buone.