Ieri la pateticità del cosiddetto “libero mercato” si è svelata in maniera lampante, lasciando chi ancora non crede alle favole a riflettere su cosa succederà quando davvero torneranno domanda e offerta a regolare gli scambi e gli investimenti. Guardate il grafico a fondo pagina, ci mostra plasticamente come la Cina ieri abbia evitato un altro bagno di sangue in Borsa: prolungando i divieti di vendite (quindi siamo arrivati al mercato rialzista obbligatorio) e facendo intervenire direttamente sul mercato i fondi governativi che hanno comprato equities col barile. Il tutto, dopo che la Banca centrale aveva iniettato nel sistema bancario qualcosa come 130 miliardi di yuan in operazione reverse repo a 7 giorni: risultato?



Zero, le banche non hanno operato, sono dovuti intervenire i fondi, ovvero lo Stato. Questa farsa non può durare a lungo e il prezzo dell’esplosione di questo schema Ponzi lo pagheremo tutti, profumatamente, visto che a Bank of America parlano di un -30% per lo Shanghai Composite nel 2016. 

Al netto di questo, è di altro che voglio parlarvi oggi e cioè del sempre più palese fallimento della Bce nel suo scopo mandatario principale, ovvero stimolare inflazione a circa il 2%. E l’Italia è la cartina di tornasole di questa sconfitta, visto che i prezzi sono rallentati ancora nel 2015, a +0,1%, toccando i minimi dal 1959, mentre nel 2014 la variazione era stata +0,2%. Lo ha reso noto l’Istat, precisando che l’inflazione di fondo (core), calcolata al netto degli alimentari freschi e dei prodotti energetici, rimane invece stabile a +0,7%: il rallentamento dei prezzi nel 2015 è quindi il risultato di dinamiche diversificate per le diverse voci di spesa. A favorirlo sono principalmente l’inversione della tendenza dei prezzi nei trasporti (-2,7%, da +0,7% nel 2014), il calo di quelli di abitazioni, acqua, elettricità e combustibili (-0,8, a fronte di una variazione nulla il precedente anno) e, in misura minore, la riduzione della crescita media annua dei prezzi di mobili, articoli e servizi per la casa (+0,4%, da +0,9% nel 2014), di ricreazione, spettacoli e cultura (+0,2%, da +0,5% del precedente anno) e di abbigliamento e calzature (+0,4%, da +0,6% nel 2014). 



A contenere il rallentamento dei prezzi su base annua sono soprattutto le bevande alcoliche e i tabacchi, con l’accelerazione della crescita dei prezzi più marcata (+2,7%, da +0,4% del precedente anno) e il tasso di aumento annuo più elevato e i prodotti alimentari e bevande analcoliche (+1,1%, da +0,1% del 2014). Ma anche le rimanenti divisioni di spesa hanno contribuito a limitare il rallentamento dell’inflazione in media d’anno, in particolare la netta attenuazione della flessione dei prezzi delle comunicazioni (-1,1%, da -7,3% nel precedente anno) e le accelerazioni dei prezzi dei servizi ricettivi e di ristorazione (+1,3%, a fronte del +0,9 del 2014), dell’Istruzione (+1,7%, da +1,4% del precedente anno), dei Servizi sanitari e spese per la salute (+0,4%, da +0,2% del precedente anno) e degli altri beni e servizi (+0,2%; nel 2014 la variazione media annua era nulla). Insomma, non siamo in deflazione conclamata ma poco ci manca. 



Cosa succede? Succede che per il quarto anno di fila la Bce ha mancato clamorosamente il suo obiettivo inflazionistico e a questo punto le domande aperte rispetto alle ricette messe in campo diventano tante e di seria importanza. Nonostante i risultati raggiunti, i funzionari preposti alla vigilanza della stabilità dei prezzi continuano a mantenere fisso quel livello di poco meno del 2% a livello annuale, nonostante le cifre parlino chiaro e ci dicono come, per l’ennesima volta, quel livello non sarà raggiunto se non nella seconda metà del 2017.

Ogni anno un rinvio, ma ogni anno la medesima ricetta: perseverare non è forse diabolico? A fronte di ripresa economica a dir poco anemica, declino demografico e prezzi dell’energia in crollo, come si può pensare di stimolare l’inflazione soltanto attraverso politiche di tassi a zero e acquisti obbligazionari? La lezione giapponese, il più clamoroso fallimento keynesiano della storia, non sta insegnando nulla a Draghi e soci? Certo, alla Bce continuano a parlare di maggiore stimolo se necessario, ma porre l’aumento dei prezzi come obiettivo in un ambiente globale di non inflazione quando non addirittura di deflazione, è un gioco a somma zero, che però porta con sé sempre una sconfitta sul medio termine. La questione è che come tutte le Banche centrali, la Bce scambia la coerenza verso le proprie scelte con l’ortodossia nell’errore e ritiene che cambiare strategia in corsa possa minare la sua credibilità nei confronti dei mercati: ci vorrebbe un bagno di umiltà per ammettere che quella presunta credibilità è invece già oggi solo residuale e quindi occorrerebbe invertire la rotta. Con prezzi del petrolio a questi livelli, il focus deve per forza essere indirizzato verso l’inflazione core, ma questo comporta anche il rischio di scostamenti non annunciati nella funzione di reazione dei prezzi energetici sulle dinamiche. 

E proprio ieri abbiamo avuto la riprova che le misure di stimolo diretto della Bce ormai sono armi spuntate, visto che l’Eurotower ha assegnato liquidità per 70,6 miliardi al sistema bancario dell’area dell’euro nel corso dell’asta settimanale di rifinanziamento a 7 giorni con volume illimitato e al tasso fisso dello 0,05%. Come annunciato dalla Bce, il volume in richiesta è stato in calo di 18,4 miliardi rispetto agli 89 miliardi erogati la settimana scorsa e all’asta, che sarà regolata il 6 gennaio con scadenza il 13 gennaio, hanno partecipato 110 banche dell’Eurozona contro 149 la scorsa ottava. Insomma, un brodino da arbitraggio. 

A livello europeo l’inflazione a dicembre si è attestata allo 0,4%, in aumento dallo 0,2% di novembre, stando alle stime di Bloomberg e questo in un contesto dove l’attività manifatturiera è ai massimi da 20 mesi e con i nuovi ordinativi che garantiscono propellente alla produzione. Il problema più grande e la sfida maggiore per la Bce è stato però il dato inflattivo tedesco, reso noto lunedì e fuori dal target del consensus, visto che a dicembre è rallentato allo 0,2% dallo 0,3% di novembre e contro le attese dell’Ufficio di statistica dello 0,4%. E se la principale economia dell’Unione ha dinamiche dei prezzi di questo genere, c’è poco da sperare a livello di ripresa generale: questo anche perché ancora il 3 dicembre la Bce prevedeva l’inflazione media per il 2016 nell’area euro all’1%, mentre molte banche come Nomura o Barclays già dimezzavano quella stima allo 0,5% medio per l’anno in corso. 

Ora la prossima previsione ufficiale dell’Eurotower è prevista per marzo, ma è ovvio che, in base al principio di credibilità di cui vi parlavo prima, non ci saranno revisioni al ribasso drastiche, a meno che Draghi non sfidi apertamente la Bundesbank e non ampli il programma di Qe anche a misure non ortodosse, come l’acquisto di Etf. Il grafico a fondo pagina ci mostra la dinamica inflattiva del 2015 e come il prezzo del petrolio abbia influito. Non è un caso che nel suo discorso del 12 novembre scorso, lo stesso Mario Draghi abbia fatto esplicito riferimento all’inflazione core come parte dell’argomento giustificativo del primo aumento del Qe, quello annunciato attraverso l’acquisto di muni-bond, il quale dovrebbe portare ad acquisti di assets per ulteriori 360 miliardi di euro, di fatto la somma che la Fed drenerà dai mercati attraverso i primi aumenti dei tassi di interesse. 

 

Detto questo, è l’ortodossia un po’ miope dei regolatori a giocare anche un impatto psicologico sulle dinamiche, visto che quando si accenna minimamente a una ridefinizone del concetto di stabilità dei prezzi rispetto a quella in vigore dal 2003, immediatamente si alzano barricate come quelle elevate dal membro del board della Bce, Yves Mersch, a detta del quale questo è un dibattito che verrà affrontato più avanti: «Non si tengono discussioni di questo tipo durante una crisi ma definitivamente dopo, la definizione di stabilità dei prezzi non può essere vista come un bersaglio mobile». Ecco il peccato originale della Bce e della sua azione: assenza totale di elasticità e rapidità nell’intervento, dovendo mettere insieme varie Banche centrali con interessi contrastanti come la Bundesbank e quelle della cosiddetta “periferia” e l’incapacità di ammettere i propri errori in sede operativa, ma solo attraverso interventi spot come quello di Mersch, il quale ammette che siamo in crisi, ma lo ha negato fino all’altro giorno, parlando di ripresa. 

L’inflazione core rimane fissa allo 0,9% contro l’attesa di una crescita all’1% e tra oggi e domani arriveranno altri indicatori macro molto importanti, tra cui il PMI di Markit, la lettura di Eurostat sulla disoccupazione e il report sulla fiducia economica della Commissione europea: chissà che dopo una messe di delusione simile a inizio anno, qualcuno cominci seriamente a porsi delle domande. 

Ma se a livello di Bce siamo all’immobilismo, altrove e a livello accademico il dibattito è quantomai fiorente: ci sono pesi massimi come l’ex presidente della Bundesbank, Axel Weber, e il capo economista della Bank of England, Andy Haldane, che spingono per un serio ripensamento rispetto alla politica di obiettivo sui prezzi, mentre altre banche centrali nel mondo stanno continuando a tagliare i tassi come la Reserve Bank of New Zealand, la quale è intervenuta ancora in dicembre. C’è poi l’esperimento estremo della Riksbank svedese, la quale è pronta ad andare ulteriormente in negativo per eliminare in un colpo solo deflazione e bolla immobiliare, non capendo che quella della guerra valutaria è un’arma doppiamente infida. Da un lato perché stimola quella bolle che ora si vogliono combattere e dall’altro perché si configura come un circolo vizioso dal quale non si esce, perché per sopravvivere a ogni taglio di un vicino deve seguirne uno tuo e così all’infinito. 

Hanno voluto mettersi nelle mani dello stimolo keynesiano? Ecco i risultati, stampare moneta non serve a nulla se non a creare bolle e nuovo debito, ma ormai ci siamo dentro, a livello globale: è un enorme schema di svalutazione monetaria che vede tutti in campo, dalla Cina al Brasile alla Svizzera e o si resetta l’intera rete – cosa impossibile – od occorre essere flessibili nelle ricette per cercare di creare meno danno possibile. Ma come andrà a finire quasi certamente ce lo dice Alexander Koch, economista alla Raiffeisen Schweiz di Zurigo, a detta del quale la Bce quasi sicuramente preferirà stampare ancora per cercare di raggiungere il suo target inflattivo, piuttosto che ammettere che questo risultato non è più realistico: «È più pericoloso se aggiusti i target nel breve termine. La credibilità di una Banca centrale dipende dai suoi obiettivi e ci vuole molto tempo per raggiungerli». 

Vero, ma ce lo abbiamo tutto questo tempo? Se la Cina va in crisi strutturale, quanto tempo rimarrà prima che la deflazione che Pechino esporterà in massa in tutto il mondo ci seppelisca in una lost decade di stampo giapponese? Speriamo che qualcuno alla Bce si stia ponendo queste domande.