Nel bel mezzo della crisi finanziaria che, parola di George Soros, rischia di far precipitare l’economia globale in un tracollo paragonabile a quello provocato dal fallimento di Lehman Brothers, è passato del tutto inosservata la svolta, inattesa, della politica finanziaria Usa. A fine dicembre il Congresso, a maggioranza repubblicana, ha dato il via libera alla riforma del Fondo monetario internazionale ferma da cinque anni per l’opposizione dei falchi di Washington ostili a dotare di nuovi mezzi e di nuovi poteri un’istituzione destinata ad aprirsi sempre di più all’influenza dei nuovi potenti.



La Cina e gli altri membri del club dei Brics (Brasile, Russia, India e Sudafrica, oltre a Pechino). Un’inversione di tendenza impensabile fino a pochi mesi fa. 

L’ostilità dei repubblicani, all’insegna del tradizionale isolazionismo del campo conservatore (ben espresso dalla retorica di Donald Trump) ha finora limitato l’azione della diplomazia economica Usa, al punto da imporre la chiusura dell’import-export bank che da 8 anni assicurava gli scambi commerciali con l’estero. Nel frattempo, Pechino conquistava spazi, attraendo nell’orbita delle nuove istituzioni finanziarie volute da Xi Jinping i partner europei e asiatici interessati al finanziamento della nuova Via della seta. Intanto, lo yuan è stato promosso nel club delle valute che compongono i diritti di prelievo del Fondo. 



Ma da qualche mese, complice la crisi finanziaria, lo scenario sta cambiando con grande velocità. La Cina, in palese difficoltà, sta procedendo in maniera disordinata a una nuova svalutazione della moneta, mettendo a rischio la stabilità dei suoi fornitori e clienti. La Borsa di Shanghai, chiusa per eccesso di ribasso già due volte nella prima settimana del 2016, è la punta dell’iceberg dell’evidente difficoltà nella nomenklatura a fronteggiare una situazione che non si riesce a mettere sotto controllo né con le buone (gli acquisti di Stato), né con le cattive (gli arresti dei colletti bianchi). Al contrario, gli Stati Uniti stanno recuperando la posizione di leadership in settori vecchi e nuovi. 



Il mese scorso il Parlamento Usa ha abolito il divieto di esportazione del greggio americano, che resisteva dal 1973: la nuova produzione dello shale oil consente a Washington di trattare alla pari con le potenze petrolifere, da Riyad a Mosca e Teheran. Inoltre, gli Stati Uniti hanno siglato il trattato Trans Pacific, accordo commerciale e politico che isola la Cina creando un cordone politico e commerciale che vuol contenere le ambizioni di Pechino. E i primi effetti si fanno vedere nelle svolte politiche del Sud America. 

A Buenos Aires Mauricio Macri ha mandato in soffitta la politica di Christina Kirchner, aprendo la strada al reinserimento dell’Argentina nell’ortodossia del Fondo. Non è difficile prevedere che la drammatica situazione dell’economia è destinata a obbligare il Brasile a cambiar rotta economica e politica nei prossimi mesi. L’intesa sul Fondo monetario internazionale apre la strada al rifinanziamento del debito dell’Ucraina, superando l’opposizione di Mosca che pretende che Kiev paghi i suoi debiti con la Russia prima di ricevere nuovi quattrini. Ma Mosca, piegata dal crollo del greggio e alla ricerca di nuova legittimazione sullo scacchiere siriano, non può forzare più di tanto la situazione. 

Il crollo delle quotazioni del greggio, del resto, cambia in profondità lo scenario internazionale. I sauditi e i loro alleati, una delle grandi fonti finanziarie dei mercati (basti pensare agli acquisti dei Fondi sovrani), sono diventati all’improvviso importatori di capitali, contribuendo alle difficoltà di banche e private equity occidentali. 

Dietro al tracollo dei prezzi delle Borse di inizio 2016, insomma, c’è molto di più di una semplice crisi finanziaria.