Da un certo punto di vista, dovrei essere soddisfatto. Quando tutti la decantavano come la quinta essenza della solidità bancaria, io mi permettevo di sollevare qualche piccolo dubbio su Deutsche Bank e i suoi conti: come sempre, il tempo è galantuomo. Nel gergo finanziario stiamo vivendo un momento conosciuto come elephant in the room, l’elefante nella stanza, ovvero un qualcosa di così enorme da essere impossibile non vederlo, ma, al tempo stesso, tanto spaventoso da portare tutti a negarne l’esistenza per paura, un po’ come il Re nudo che solo il bambino con la sua innocenza ha il coraggio di svergognare. E la situazione è davvero grave.
Ieri mattina in apertura di contrattazioni a Francoforte, Deutsche Bank cedeva l’8,56%, sfondando al ribasso la soglia psicologica dei 10 euro, portandosi a 9,94 euro dopo aver perso il 7% nelle contrattazioni di giovedì a Wall Street. Da inizio 2016, il colosso di Francoforte ha perso allo Xetra il 58% del suo valore. Ma c’è di peggio, perché giovedì l’agenzia Bloomberg ha reso noto che dieci hedge funds che utilizzavano Deutsche Bank come clearing house per il loro trade su derivati hanno ritirato liquidità e ridotto la loro esposizione verso il gigante tedesco. Tra i fondi che hanno spostato le masse da DB ci sono Millennium Partners di Izzy Englander, che gestisce 34 miliardi di dollari, Rokos Capital Management di Chris Rokos, con asset under managemement per 4 miliardi di dollari, e Capula Investment Management, che gestisce 14 milliardi di dollari.
DB deve anche affrontare un problema di non poca rilevanza in Cina, dove sta cercando di vendere la sua partecipazione in Huaxia Bank Co. per 3,9 miliardi di dollari. Pareva un’operazione tutto sommato semplice, ma, nel frattempo, ha scritto due giorni Bloomberg, il governo di Pechino, attraverso la voce dello State Administration of Foreign Exchange, ha messo le mani avanti, perché una tale cifra che esce all’improvviso dal Paese potrebbe mettere in difficoltà la stabilità monetaria della Cina. Una delle possibili soluzioni, a quanto risulta all’agenzia americana, è di suddividere il flusso di liquidità in tranches di minor importo. Con la conseguenza che giungerebbero in Europa più tardi rispetto a quanto preventivato da DB.
Soluzioni? Ieri mattina Die Zeit, solitamente bene informato, scriveva che, stando a fonti riservate, il governo sta già lavorando al salvataggio pubblico della banca. E anche il sito del quotidiano economico Handelsblatt rilanciava l’ipotesi che il governo di Angela Merkel sia costretto a tornare sui propri passi a meditare una strada ritenuta finora impossibile: l’intervento statale, anche se sia il cancelliere, sia il ceo della banca, John Cryan, hanno finora negato un’idea simile. Handelsblatt parlava di speculazioni stando alle quali, in caso estremo, lo Stato rileverebbe il 25% delle azioni, rilanciando in questo modo l’articolo uscito due giorni fa su Die Zeit online dal titolo “Deutsche Bank , la grande sbornia”.
Ma non è tutto. Sotto pressione, infatti, è anche Commerzbank, secondo maggiore istituto in Germania, che ieri mattina all’apertura delle contrattazioni cedeva il 7,92% a 5,35 euro. E non si tratta di una crisi da poco. Commerzbank si prepara infatti a seguire una ferrea cura dimagrante, stando al piano di ristrutturazione da qui al 2020, strategia che rispecchia a pieno l’impegno del nuovo amministratore delegato, Martin Zielke, di ridurre le dimensioni dell’istituto in uno scenario di tassi di interesse negativi e di ridotta domanda da parte dei clienti.
Nel dettaglio, il progetto prevede una rifocalizzazione sui business core della società, con alcune attività che verranno sospese e con un maggior sforzo verso la digitalizzazione e l’automazione dei flussi di lavoro, ha spiegato la banca che punta a un ritorno sul tangible equity (Rote) di almeno il 6% e a un Cet1 superiore al 13% entro la fine del 2020. Il piano prevede, inoltre, un taglio del 20% della forza lavoro, pari a circa 9.600 dipendenti full-time, contrazione che sarà bilanciata dalla creazione 2.300 nuovi posti nelle aree di business con un elevato potenziale di crescita. A questo si aggiunge la prospettiva di fusione tra la divisione investment banking e quella indirizzata alle piccole e medie imprese e la sospensione della distribuzione del dividendo per l’esercizio corrente, azione questa necessaria per coprire i costi della ristrutturazione, previsti intorno a 1,1 miliardi di euro (1,2 miliardi di dollari).
Il management non ha fornito alcun dettaglio sulle tempistiche di ripresa del pagamento della cedola. I tagli erano già stati preannunciati da fonti di stampa nei giorni scorsi, ma sono stati percepiti comunque come una sorpresa dato che la fotografia dell’istituto lo scorso novembre, quando l’ex ceo, Martin Blessing, aveva annunciato le sue dimissioni, ritraeva una banca uscita dal suo periodo di riorganizzazione estensiva.
Attenzione, però, al timing di quanto sta accadendo: l’accavallarsi di voci e scoop su Deutsche Bank è infatti arrivato a ridosso di un weekend lungo per la Germania, visto che lunedì si festeggia l’anniversario della riunificazione con l’Est e la Borsa sarà chiusa. Tre giorni di pausa dai marosi del mercato, durante i quali – statene certi – il governo farà quello che deve fare, mettendosi al riparo da attacchi speculativi. Siamo alla vigilia della Lehman Brothers europea, questo fine settimana potrebbe cambiare tutto o quasi: e se i giornali non scrivessero nulla e il governo non annunciasse alcunché, non pensiate che non sia davvero successo qualcosa. Deutsche Bank è strutturalmente fallita, resta in piedi per motivi politici, ma occorre mettere mano al malato con cure da cavallo.
Come reagiranno a questa incertezza le Borse europee lunedì? Difficile dirlo, ormai siamo nelle mani degli spacciatori di veline a orologeria. Resta però una certezza, la stessa che non mi fa gioire della mia preventiva messa in guardia sullo stato di salute di DB: per quanto la banca sia esposta e sottocapitalizzata – e nessuno lo nega – c’è qualcosa di strano nell’accelerazione della sua crisi, un qualcosa che ha un indirizzo preciso: gli Usa. Prima la multa per i subprime, poi l’attivismo di Bloomberg nel rendere noto al mondo che 10 hedge funds Usa sono scappati da DB a gambe levate: qualcuno ha bisogno che la bolla innescata dalla Fed scoppi il più lontano possibile da Washington e nel modo più fragoroso possibile. Altrimenti, prima o poi, i tassi Usa andranno alzati e l’intero palazzo crollerà: se invece l’epicentro indotto della crisi è altrove, si può tranquillamente parlare di timori di contagio esterno, fare la figura dei bravi bambini e tornare a stampare senza che nessuno abbia nulla da ridire. Un tonfo di Wall Street prima delle presidenziali gli Stati Uniti non possono permetterselo.
Una lezione dobbiamo imparare da questa vicenda, comunque vada a finire: in fatto di finanza, i tedeschi non possono fare la morale a nessuno, ma è altrettanto chiaro che è in atto una guerra commerciale ed economica con gli Usa. Smettere di guardarli come amici e partner potrebbe essere l’unico modo per sopravvivere. Ma dubito che accadrà, siamo servi dentro.