Il convegno “Obbligati a crescere”, organizzato mercoledì 5 ottobre a Roma dal quotidiano Il Messaggero, è stato un momento di profonda riflessione non tanto e non solo sul nostro Paese, quanto piuttosto sull’Europa e su quanto sta accadendo nel Vecchio Continente, ma anche oltre oceano. Come ha ben sintetizzato alla fine della giornata il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, ci sono dei temi di grande importanza: quello della fiducia smarrita nelle istituzioni (incapaci di proporre soluzioni e darsi una governance soprattutto in Europa) e quello della tecnologia che, ad esempio, negli Stati Uniti ha inciso sui quattro quinti dei posti di lavoro persi, senza che ci sia stato un contemporaneo aumento della produttività.
“L’Unione europea – ha dichiarato in apertura Antonio Patuelli, presidente dell’Abi – scricchiola e non dà segni di unità. È indispensabile un chiarimento nelle strategie europee. L’unione bancaria senza normative identiche rischia di andare in crisi”. E ancora: “Si stanno corrodendo gli ideali del federalismo a vantaggio dei nazionalismi. Le spinte antieuropee sono determinate dall’eccesso di normative. Nel 2016, finora, sono stati adottati 5 provvedimenti normativi per ogni giorno lavorativo”.
Ma allora come si esce da questo lungo momento di bassa crescita? “Dobbiamo tornare – ha spiegato Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria – a quello spirito del dopoguerra che era guidato non dagli interessi, ma dai bisogni del Paese. Due le questioni. Quella italiana e quella europea. Non facciamo l’errore di partire dai saldi di bilancio per poi andare all’economia reale. Dobbiamo fare il percorso inverso, immaginare un’industria ad alto valore aggiunto, senza chiedere scambi alla politica. Produttività investimenti privati, finanza, infrastrutture. Questi i punti chiave. Ben venga l’industria 4.0. La crescita non può essere l’alibi lasciato alla politica. La crescita deve essere il progetto di tutti noi, senza alibi. Questo Paese ha bisogno di una politica economica unica senza le dispersioni regionali. Dobbiamo essere orgogliosi di contribuire alla crescita del nostro Paese”.
E tuttavia lo scenario complessivo è intricato e gli elementi di disgregazione paiono più forti dei valori che qualche tempo fa sembravano unire l’Europa. “In un momento molto complicato – ha spiegato il Prof. Romano Prodi – e con molte novità (cresce meno il commercio internazionale dello sviluppo mondiale), la società moderna si va frammentando in modo complesso e si va verso una politica commerciale fatta di singoli punti e singoli accordi. Mai nella storia ci sono stati periodi con tassi di interesse negativo, come quello che stiamo vivendo. Quando sento che un’impresa chiede 1 miliardo di finanziamento e anche concorda un tasso a suo vantaggio, capisco che c’è qualcosa che non va”.
E sull’Unione europea: “La differenza tra Europa e Stati Uniti – ha proseguito Prodi – è che gli Stati Uniti vanno. La crisi è europea. Avremo delle varietà di comportamenti economici che renderanno complesso soprattutto il prossimo anno. Siamo in piena rinazionalizzazione della politica europea. Siamo tra due grandi cambiamenti. La germanizzazione della politica europea e l’uscita della Gran Bretagna hanno cambiato lo scenario. L’Europa unione di minoranze era la prospettiva di 15 anni fa. Oggi non è più così. Siamo in una fase germanizzata.”
E quali sono le prospettive per il nostro Paese? “La decrescita felice – ha sintetizzato Prodi – non esiste. Le piccole imprese sono quello che hanno più sofferto. L’Italia si fonda su 2/3 mila media imprese. La produttività tedesca è più forte nelle grandi imprese, ma nelle media imprese noi abbiamo le stesse performance tedesche. Come facciamo a innescare la crescita su queste basi? Le regole europee non tengono in considerazione le specificità del nostro paese e della struttura del credito nel nostro paese nei confronti delle imprese. Il nostro problema non è solo di investimenti, ma anche di consumi. Il tema è come promuoviamo la crescita se non c’è domanda?”.
E da questo quesito sono partite le interessantissime e nette osservazioni del Prof. Jean Paul Fitoussi. “Solo la crescita – ha spiegato Fitoussi – può risolvere i problemi che abbiamo come la disoccupazione, il disavanzo pubblico e il debito pubblico. Se guardiamo alla storia, vediamo che è sempre stata la crescita a risolvere questi problemi. Dobbiamo farci due domande. La prima: crescita di che? Del Pil, del benessere? E la seconda: per chi? Per il top 1%? Per il top 1 per mille della popolazione? Negli Stati Uniti il benessere non è cresciuto in questi ultimi anni, anzi è stato decrescente. La gente è meno felice negli Usa perché è aumentato il divario. L’1% degli americani ha assorbito il 95% della crescita. Quindi gli americani non hanno visto la crescita. Trump ha tanto seguito nella campagna elettorale americana per questo motivo. C’è stato un aumento forte della diseguaglianza”.
“La ricchezza vera della nazione – ha proseguito Fitoussi – è la parte immateriale. Il capitale umano e sociale. Se facciamo delle politiche che li distruggono, queste politiche sono sicuramente sbagliate. Per arrivare alla diminuzione di un 1 percento del debito pubblico abbiamo depresso il capitale umano del 10 percento. Abbiamo una disoccupazione maggiore di quella degli anni Trenta. E soprattutto abbiamo distrutto la fiducia. Perché credete che i partiti estremisti siano così forti in Europa? Perché abbiamo distrutto la fiducia nei governi e nella loro capacità di risolvere i problemi della gente”.
Si devono affrontare temi che non solo non stanno avendo risposta, ma che ne hanno una contraria alle attese: “L’Europa è una regione – ha spiegato Fitoussi – mentre io avrei sognato un Paese con un governo federale. Ma non solo. È una regione con una popolazione che sta decrescendo. E cosa facciamo in tema di politica di immigrazione? Io mi vergogno a dirlo: invece di attuarne una condivisa, diamo a dei mercenari il compito di controllare le nostre frontiere. Viviamo in società che stanno diventando anziane. E in queste società non facciamo posto ai giovani: il 50% è disoccupato. Le scelte che facciamo non rispondono a nessuno dei problemi che abbiamo”.
“E le banche? – ha proseguito Fitoussi – Mi chiedo cosa avremmo fatto senza Draghi. La politica monetaria, però, non dispone della sua piena potenza in una situazione in cui l’inflazione è zero. La regolamentazione poi è diventata così esigente che le banche non riescono fare prestiti. Come mai abbiamo questa bella politica monetaria e abbiamo delle regole che impediscono alle banche di sostenere le imprese? Bisogna rivedere le regole dell’economia, comprendere quello che conta per la gente e vedere cosa fare per risolvere i problemi attuali”.
Abbiamo davanti sfide importanti, ma forse la prima, quella imprescindibile, è quella di recuperare la fiducia. Nella politica. Nel futuro. Nel Paese. In noi stessi.