Anche oggi, la cronaca ci ha messo di fronte a nuovi segnali di emergenza per il settore bancario. In sintesi:
I bancari, ex privilegiati del mondo del lavoro, rischiano di essere la categoria più decimata nel prossimo futuro. L’ultimo segnale arriva da Bnp Paribas-Bnl. L’ad Andrea Munari ha presentato un piano che prevede il prepensionamento incentivato di oltre 700 dipendenti. In questo modo sarà possibile chiudere oltre 100 sportelli sparsi per il territorio nazionale Nel frattempo la banca ha annunciato di voler ridurre i premi di produzione.
Provvedimenti del genere, o molto più duri, sono destinati a riempire le cronache sindacali nel prossimo futuro. Le banche, per ora, calcolano di qui al 2020 l’uscita di oltre 25 mila dipendenti sui 310 mila addetti complessivi. Ma le cifre potrebbero salire. Pesano gli effetti di una congiuntura negativa, ma ancor di più l’impatto della tecnologia sul mondo del denaro. La rivoluzione digitale è destinata a tagliare drasticamente la forza lavoro. Non solo allo sportello, ma anche in quelle attività, vedi la consulenza, che sembravano al riparo. Al contrario, i robot advisors stanno rapidamente spazzando via gestori e consulenti. Un po’ come i bancomat e i conti online hanno reso inutili le filiali in centro città, già simbolo dell’opulenza. Eppure il Fondo esuberi, l’ammortizzatore del settore alimentato dalle stesse banche, ha consentito di accompagnare al pensionamento circa 50.000 bancari dal 2000 a oggi, con un costo molto rilevante: considerando una spesa media annua di 56.000 euro per il singolo prepensionato, il settore bancario ha speso in questi 16 anni circa 175 milioni di euro all’anno. La cifra è ora destinata a salire, ma con una novità. Buona parte della spesa ricadrà sulla fiscalità generale, perché le banche non ce la fanno più.
La crisi colpisce un sistema che ha in pancia oltre 200 miliardi di sofferenze lorde, qualcosa in più rispetto a gennaio, nonostante gli sforzi degli istituti e le novità legislative introdotte per accelerare le ristrutturazioni. Non è stato finora posto rimedio alle non poche situazioni di emergenza. Anche perché le terapie sono dolorose. E gli istituti americani, in pratica gli unici che si sono fatti avanti, non sono certo medici pietosi.
Il fondo Apollo, già respinto a Genova perché le condizioni per il salvataggio di Carige apparivano ai soci troppo avare, si è fatto avanti per Veneto Banca e Popolare di Vicenza. L’offerta non è generosa, così che Alessandro Penati, alla testa di Atlante, prende tempo perché vorrebbe terminare la ristrutturazione dei due istituti prima di cederli così da non doverli vendere a prezzi stracciati. Ma l’operazione può riuscire solo se, tra le altre condizioni, ci sarà un forte taglio dell’occupazione: almeno 3.500 dipendenti sulle attuali 10 mila unità.
Non è difficile immaginare scenari simili al Monte Paschi piuttosto che nelle quattro good banks (sempre meno good, perché nel 2016 si sono accumulate altre sofferenze). Anzi, se si guarda agli istituti di cui l’Ue ha vietato un anno fa il salvataggio (prima dell’ingresso in vigore del bail-in), si scopre che finora il loro salvataggio è costato a obbligazionisti, industria del credito, Stato e, buoni ultimi, anche alcuni ignari correntisti, circa 5 miliardi.
Ora il rischio maggiore è che il costo di questo salvataggio, montato con le nuove regole per proteggere i contribuenti, non salvi né le banche, né i loro quasi 6.000 dipendenti. La cessione delle banche risanate doveva avvenire ad aprile, è stata prorogata a settembre e poi slittata, ma ancora non c’è alcuna certezza che vada in porto.
Il pessimismo è giustificato dal fatto che gli investitori non abbondano. Anzi, non si ha notizia di gruppi seriamente intenzionati a investire nei punti caldi del sistema. Colpa dell’incertezza politica piuttosto che dei comportamenti aziendali. La vera condanna, infatti, sta nel fatto che agli occhi dei mercati le banche sono una proiezione della congiuntura Paese.
Ma non tutto è perduto. Come ha registrato Citigroup, il peggio per le banche di casa nostra potrebbe essere alle spalle. Lo dimostrano i successi di Banca Intesa, il dinamismo di Unicredit, che si sta disincagliando da una situazione molto delicata grazie a una politica di dismissioni, o la politica prudente ma aggressiva di Bper e Ubi. Più ancora la svolta potrebbe arrivare dalle nozze tra Bpm e Banco Popolare, la prima grande fusione europea dopo la nascita dell’Unione bancaria. Può essere il segnale dell’inversione di tendenza se non resterà un gesto isolato in un quadro che si muove ancora con esasperante lentezza.