Ieri l’assemblea di Ubi Banca, già trasformata in Spa e ora anche “banca unica”. Oggi il probabile via libera dei soci di Banco Popolare (certo) e Banca Popolare di Milano (un po’ meno) alla fusione: per dar vita alla “SuperPopolare Italiana” che però non sarà più una Popolare ma un’altra grande Spa quotata come Intesa Sanpaolo e UniCredit. Attorno, intanto, il Credito cooperativo si spacca: la Cassa centrale di Trento, dopo vari stop-and-go, ha deciso di aprire il cantiere di un secondo gruppo autonomo rispetto a quello promosso dalla centrale nazionale Federcasse. 



Non è una sorpresa: la riforma delle Popolari era stata varata dal governo con un blitz nel gennaio 2015, quella delle Bcc un anno dopo, con un percorso più lungo e travagliato. La fusione Banco-Bpm, non solo sulla carta, appare una “buona storia”: un’eredità sostanziale da parte del credito popolare, “famiglia” importante della genealogia bancaria nazionale. Certo, negli ultimi 18 mesi i dissesti di Popolare di Vicenza, Veneto Banca e Banca Etruria hanno raccontato anche la drammatica decadenza di altri rami della famiglia. Ma nella “finis” di una saga ultra centenaria si scorgono tutte le ferite — anche quelle nascoste — di un intero settore bancario che dopo il 2011 è semi-affondato assieme al sistema-paese: un po’ per debolezze proprie, un po’ per la fragilità di un sistema istituzionale incapace di difendere (per non dire di peggio) un asset importante dell’azienda-Italia.



L’implosione del Credito cooperativo è invece una “cattiva storia” a tutto tondo: tanto più “cattiva” e opaca quanto più mal cela la rottamazione più sommaria da parte della Renzinomics. Un mondo pregiudizialmente ostile a ogni corpo intermedio della società economica che non sia il suo proverbiale “cerchio magico”: quindi l’utilizzo di un pugno di Bcc toscane come grimaldello di una riforma fintamente rispettosa della storica unitarietà del movimento delle casse rurali; e il ricorso a un tecnocrate-finanziere internazionale come Lorenzo Bini Smaghi (presidente della Banca del Chianti ma anche del consiglio di sorveglianza del colosso francese SocGen) per forzare la rottura è — avrebbero esultato vecchi leader Pci — “avere una banca” (prevedibilmente non l’unica”). Il problema della “scissione trentina” del Credito cooperativo non è solo tecnico: due gruppi di Bcc in concorrenza interna saranno meno forti di quanto sarebbe stato il Gruppo Nazionale progettato dalla Federcasse di Alessandro Azzi. Il problema è politico-sociale: il patrimonio collettivo accumulato della cooperazione verrà drasticamente disperso. Anche per il polo Trentino e i suoi prevedibili “grandi fratelli” esteri che già si scaldano i muscoli oltre i confini.

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