Della Legge di bilancio si conoscono solamente le grandi linee, quali presentate in slides su Facebook e sintetizzate nei comunicati della Presidenza del Consiglio, arricchiti da indiscrezioni e interpretazioni apparse sugli organi d’informazione. Mi auguro che quest’anno non verrà ripetuta l’imbarazzante situazione dell’ottobre 2016, quando le autorità comunitarie a Bruxelles ricevettero per fax unicamente la copertina e alcune pagine del testo e solo dopo più di una settimana venne reso disponibile quando inviato al Parlamento. Allora, non si seppe (in effetti non si seppe mai) quanto era stato deliberato dal Consiglio dei ministri e quanto era il frutto dei solerti uffici legislativi di palazzo Chigi guidati dall’ex-Capo dei Vigili urbani di Firenze (ora in procinto di diventare Consigliere di Stato). Tuttavia la manovra sembra “ballerina”, per via anche di una clausola “salvo intese”: il che vuol dire che la Presidenza del Consiglio, d’intesa con i singoli ministeri, potrà fare altri cambiamenti entro il 20 ottobre, data dell’ invio del testo alla Commissione europea.



Dalle “grandi linee” si trae l’impressione che il “nuovo che avanza” (e che spera di restare un ventennio nella “stanza dei bottoni”) non è molto differente dalla Prima Repubblica, quella per intendersi anteriore al 1992. È l’indicazione che si ricava sia dall’entità della manovra (27 miliardi di euro – ma un anno fa non era stato annunciato che non ci sarebbe più state né manovre, né leggi finanziarie perché ormai la finanza pubblica era sul retto binario e con un pilota quasi automatico?), sia dalla struttura di un disegno di legge caratterizzato da due aspetti: a) il gettito aumenta non perché aumentano produzione, occupazione e reddito, ma grazie a una serie di condoni (dalla voluntary disclosure e via discorrendo); b) la spesa viene contenuta specialmente sui servizi sociali. Inoltre, un Governo che si propone di rendere più efficiente la Pubblica amministrazione e di ridurre il perimetro dell’intervento pubblico annuncia un aumento di 10.000 unità nell’organico del pubblico impiego e un forte aumento degli “incentivi” (leggi sussidi) alle imprese, mirati segnatamente a ricerca, sviluppo e innovazione. Solo pochi mesi dopo che, distintamente, sia il “rapporto Giavazzi”, sia la spending review guidata da Cottarelli ne avevano consigliato una drastica riduzione.



Se esistessero ancora le vecchie categorie politiche del secolo scorso, si potrebbe dire che è una Legge di bilancio di destra, molto attenta a privilegiare alcuni settori imprenditoriali e finanziari. Ciò è perfettamente coerente con l’apertura a destra che in vista del referendum sta effettuando il Presidente del Consiglio alla conquista di voti in libertà che tradizionalmente andavano verso Forza Italia e Alleanza Nazionale. Ciò è, però, poco in linea con quelli che dovrebbero essere gli obiettivi che si dichiarano di centrosinistra e che includono tra i suoi sostenitori in Parlamento e nel Paese deputati, senatori e soprattutto elettori che hanno sinceramente militato nel Pci e nelle varie denominazioni e sigle che il Partito ha assunto dopo il crollo del Muro di Berlino.



Questi aspetti, strettamente di collocazione e colorazione politica, sarebbero molto rilevanti, se non ce ne fosse uno, sottostante, molto più importante: riusciranno i nostri eroi a mantenere il rapporto tra indebitamento netto della Pubblica amministrazione e Pil entro il 2,1-2,3% e a pilotare una riduzione del debito pubblico?

Ho serie perplessità al riguardo. In primo luogo, non è mai stata resa pubblica (alla faccia della trasparenza!) la modellistica econometrica in base alla quale nei prossimi mesi la crescita italiana si rafforzerebbe. Il Governo italiano stima che il tasso di crescita del Pil aumenterà dallo 0,8% circa nel 2016 all’1% nel 2017. Secondo i dati diramati l’8 ottobre dal gruppo del consensus (i 20 maggiori istituti econometrici mondiali, tutti privati, nessuno italiano), si prevede un rallentamento della crescita mondiale e uno scivolamento di quella dell’eurozona dall’1,5% nel 2016 all’1,2% nel 2017. È difficile individuare quali sono le determinanti che farebbero divergere le tendenze italiane da quelle internazionali ed europee. Se non vengono prese misure rigorose di consolidamento della spesa pubblica, a fine 2017 l’indebitamento netto della Pubblica amministrazione potrebbe superare in misura significativa il 3% del Pil e comportare l’apertura di una “procedura d’infrazione” da parte delle autorità europee.

Il rinvio di anno in anno dell’equilibrio strutturale di bilancio considerato, a torto o a ragione, uno dei pilastri dell’intera costruzione europea, induce a ritenere che il Governo non crede alle sue stesse cifre. In base alla legge costituzionale rinforzata approvata dal Parlamento italiano, il pareggio si sarebbe dovuto raggiungere nel 2014. Ora si parla di rinvio al 2017-18 e un ulteriore disavanzo nell’esercizio del 2017 non può non fare ritardare questo obiettivo e aumentare un debito pubblico italiano che già è causa di forti timori. Come dimostrato dall’aumento dello spread sui titoli di stato italiano, che supera quello sui Bonos spagnoli.

In particolare, se aumentano i tassi a livello internazionale (come sembra probabile), in Italia il rapporto tra stock di debito e Pil potrebbe sfiorare il 137%. Ciò potrebbe indurre i fondi stranieri, che detengono circa la metà dei titoli di debito italiani, a vendere, causando ulteriori incremento dello spread, mettendo in atto una vera e propria spirale.

Non sono i risultati del referendum, ma l’evoluzione delle finanza e del debito pubblico a mettere in serie difficoltà chiunque sarà al Governo la primavera prossima, quando i nodi verranno al pettine. C’è il rischio di un ripetersi della crisi del 1992. Colleghi che lavorano a palazzo Chigi non mi considerano più un gufo, ma una Cassandra. Omero e Virgilio ci dicono che la figlia di Priamo tutti i torti non li aveva.