Ricorderete come la scorsa settimana fece sensazione il balzo a sorpresa della produzione industriale in Italia ad agosto: stando ai dati dell’Istat – destagionalizzati e corretti per gli effetti del calendario -, è cresciuta dell’1,7% rispetto a luglio 2016 e del 4,1% dall’agosto 2015. Il raffronto tendenziale, cioè la variazione su anno, è il migliore da cinque anni a questa parte, cioè da agosto 2011. Si tratta inoltre di un risultato ben migliore delle attese: nella nota mattutina, gli economisti di Intesa Sanpaolo stimavano un calo mensile dello 0,1% della produzione, per affidarsi quindi a un rimbalzo a settembre. A guidare questo risultato clamoroso, il quasi +20% del settore automobilistico.
Se ben ricordate, il governo – notoriamente solito festeggiare qualsiasi refolo d’aria si muova attorno allo zero virgola – ebbe la decenza di non spacciare troppo questo dato come una sua vittoria. E la ragione è presto detta: si tratta del risultato di una bolla, non del fatto che l’Italia stia ripartendo. Stando a dati di JP Morgan, le vendite di auto a livello globale nel mese di settembre sono salite del 3,5% su base mensile, questo dopo i forti dati di luglio e agosto. I livelli delle vendite sono ormai nell’ordine del massimo storico di 78 milioni di unità al mese, annualizzando il dato: prendendo l’insieme, le vendite sono salite del 16,2% nel terzo trimestre, un qualcosa che vede il dato annualizzato fino a questo settembre su del 27%.
Ma ci sono delle criticità: la prima è data dal fatto che questi numeri contrastano con il tasso di crescita della spesa per beni di consumo in generale, la quale proprio a partire da agosto pare aver preso una pausa. Secondo, dopo che la bolla immobiliare (di cui parleremo più tardi) è esplosa, ora la Cina si trova ad aver a che fare con un’altra distorsione, proprio quella del mercato dell’auto. Per JP Morgan, «l’influenza della Cina nella recente crescita delle vendite di auto è enorme e questo suggerisce cautela nel prendere queste cifre come segnale di salute del mercato».
Stando agli ultimi dati e come ci mostra il grafico a fondo pagina, dell’aumento di 4,4 milioni di unità di auto vendute da luglio la Cina da sola ha contribuito per l’84% del totale, circa 3,7 milioni di unità. Come ha fatto la Cina ha far crescere una bolla simile in così poco tempo? Il tutto fa riferimento a quanto accaduto lo scorso anno e non ha nulla a che fare con una domanda organica: nel settembre del 2015, il governo cinese dimezzò le tasse sull’acquisto di automobili non di lusso e da allora le vendite nel gigante asiatico sono salite del 33%. Di fatto, una bolla statale alimentante debito. Il problema è che la Cina è l’unico driver di questo settore industriale così strategico e che ha garantito la gran parte dell’aumento del dato della nostra produzione.
Dando un’occhiata al dato Usa, infatti, quello che Sole24Ore e soci ci hanno spacciato fino a poco tempo fa come il miracolo obamiano, è la stessa JP Morgan a confermare che le vendite si sono stabilizzate da inizio anno, nonostante il dato migliore ottenuto nel secondo trimestre. Da gennaio, il dato ci parla soltanto dell’1,4% in più.
Certo, con 17,7 milioni di unità, il dato Usa è indubbiamente solido, il problema è che non più tardi di un mese fa il dato del credito al consumo per acquisti di automobili – di fatto, debito che i cittadini si caricano sulle spalle – ha superato 1 triliardo di dollari, facendo emergere sempre maggiori preoccupazioni riguardo la qualità degli assets. Per adesso, i tassi di non pagamento di quei debiti sono ancora bassi, ma visto che negli ultimi quattro anni i prestiti per acquisti di auto a cittadini con rating di credito basso, se non subprime, sono saliti del 35%, il rischio di un rapido deterioramento è dietro l’angolo in caso di netto rallentamento economico generale. E, come sapete, il ciclo del credito nato dopo la grande crisi, è entrato nel settimo anno e sta naturalmente esaurendosi: oltretutto, con la Fed che formalmente dovrebbe contrarre la politica monetaria attraverso il rialzo del tassi, non stimolarla.
Ora, al netto di questo, cosa accadrebbe a livello globale se l’enorme impulso di domanda cinese sparisse in tempi più rapidi del previsto? Se escludiamo la Cina dalla visione d’insieme aggregata di crescita e domanda, il quadro mondiale è da recessione conclamata. Oltretutto, la gran parte della debolezza settoriale arriva dagli altri Paesi emergenti, con in testa Brasile e Russia, quindi Stati produttori di petrolio: nel mondo sviluppato, il terzo trimestre ha visto una crescita solo del 2%, mentre gli emergenti senza la Cina sono calati di oltre il 5% nel terzo trimestre. Inoltre, un’altra vittima della congiuntura, nonostante l’esperimento folle condotto dalla sua Banca centrale, è il Giappone, uno dei grandi player mondiali del settore automobilistico. Insomma, larga parte della produzione industriale del mondo è ancora legata alla Cina, piaccia o meno. Durerà?
Una cosa è certa: come anticipavo a inizio articolo, Pechino ha sì visto esplodere la sua bolla immobiliare ma il fall-out purtroppo rischia di non essersi ancora sostanziato del tutto. Il credito facile che anche la Banca del Popolo sta elargendo ha infatti visto riversarsi eserciti di persone nel mercato immobiliare nei mesi recenti e i prezzi delle case, nelle 70 più grandi città del Paese, sono saliti del 7,5% in agosto su base annua, stando al National Bureau of Statistics. Questo però ha portato con sé un qualcosa di devastante: i nuovi prestiti accordati in Cina ad agosto hanno infatti avuto un controvalore di 948 miliardi di yuan (142 miliardi di dollari), il doppio rispetto al mese prima, stando a dati di Caixin. Peccato che oltre il 71% di quei prestiti sia andato a cittadini per un utilizzo che non depone a favore di un’economia sana: per pagare i mutui accesi e in essere.
Capital Economics faceva notare a inizio anno che il dato era già al 20% del totale e che c’era da preoccuparsi: ora siamo quasi ai tre quarti. Inoltre, il governo sta cominciando a pensare a forme di controllo della crescita del credito verso le aziende, sia abbassando il livello di leverage del comparto corporate che con un approccio più di mercato nei confronti dell’accumulazione di debito, come ad esempio la ristrutturazione, gli swap debt-to-equity, la cartolarizzazione e, infine, la liquidazione nei casi più estremi. Finora questo è stato l’approccio di una minoranza, ma se si dovesse intervenire davvero, la Cina dovrà mettere in conto un ciclo di default che potrebbero impattare sia sulla sua stabilità finanziaria, sia sullo yuan.
È un dato di fatto e ce lo confermano i due esempi fatti, quello del settore auto e quello del settore immobiliare: la Cina sta cercando disperatamente risposte al suo problema di debito sempre crescente, anche perché il gap con il Pil, tenendo conto dei prestiti al settore privato ed escludendo le istituzioni finanziarie, a marzo era del 30.1. Di più, il gap debito/Pil cinese era il più alto tra le 43 economie monitorate dai controllori finanziari internazionali: solo per mettere la cosa in prospettiva, il Fmi e altre istituzioni simili parlano di segnale di potenziale crisi quando si sale sopra 10.
Attenzione a tenere l’occhio troppo lontano da quanto accade in Cina – e io sono il primo a dover fare mea culpa per questo -, perché ancora una volta il Dragone potrebbe essere il proverbiale canarino nella miniera che ci svela quando l’esplosione potrebbe essere imminente.
P.S.: Non spreco un pezzo per rispondere a Petr Nagibin e al suo elenco di non sense contenuto nell’articolo pubblicato domenica a sua firma sul Sussidiario. E non tanto perché la propaganda anti-russa sia pateticamente nei fatti su tutti i media e la realtà la smentisca altrettanto quotidianamente coi fatti e i numeri. Non perché io riportavo le parole e le impressioni di gente che in Russia ci lavora da anni e non intendevo dar vita a un saggio sulla de-sovietizzazione del Paese, argomento che sembra stare tanto a cuore allo scrivente (forse rimpiange le “riforme” e le “aperture” di Boris Eltsin che regalarono la Russia a oligarchi traditori e potenze straniere). Non perché il rumore delle unghie sulle specchio si faceva più forte a ogni riga. E non perché timing e metodo puzzano lontano un miglio di messaggio in codice al sottoscritto per conto terzi. E nemmeno per quel “(per davvero)” nel titolo, il quale sembra presupporre che io invece scriva bugie (in nove anni di collaborazione, non una sola querela). Ma perché prima che mi venisse segnalato l’articolo, ci avevano già pensato i lettori nella sezione dei commenti a sbugiardarlo. E questo, per una persona che crede fermamente nel suo lavoro e nella serietà che occorre metterci, vale più di tutto.