Con l’audizione della Banca d’Italia sulla nota di aggiornamento del Def (Documento di economia e finanza) comincia una settimana segnata dal dibattito di politica economica. La banca centrale probabilmente darà un giudizio temperato, luci e ombre insomma, ma tra le ombre non potrà non mettere in evidenza quelle più oscure: il debito che non smette di salire e il disavanzo strutturale (cioè al netto delle variazioni del ciclo e di una tantum) che, invece di ridursi di mezzo punto fino al pareggio di bilancio, è aumentato dello 0,5% quest’anno e resterà all’1,2% nel 2017. L’uno e l’altro sono, del resto, i due punti sui quali si concentrerà la critica dell’Unione europea.



Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, introducendo la nota di aggiornamento, dà la colpa alle “modeste” prospettive di sviluppo nell’intera zona euro e alle nuove turbolenze geopolitiche. La prima pagina del documento spiega molto chiaramente perché “la crescita del Pil ha rallentato”. E cioè: “Dal lato dell’offerta ciò sembra dovuto a un minor dinamismo della produzione industriale, mentre l’attività nel settore dei servizi ha continuato a crescere moderatamente. Dal lato della domanda, le esportazioni sono ripartite ma la domanda interna si è indebolita, con una minore dinamica sia dei consumi, sia degli investimenti”. Insomma, i fattori esterni hanno senza dubbio influito, ma sono stati davvero determinanti i fattori interni.



L’Italia ha mancato l’aggancio alla ripresa dal 2014 a oggi, con una crescita da zero virgola qualcosa, sempre inferiore a un punto percentuale. E adesso che peggiorano le componenti internazionali della congiuntura, l’Italia arranca. Perché? Si potrebbe dire che non è mai scattata la fase due. Dopo la terribile crisi del 2011-2012, che ha portato il paese sull’orlo del default, Mario Monti ha bloccato il tracollo usando la mannaia, ma, concluso il lavoro ingrato, è stato liquidato. Il governo di Enrico Letta è durato anch’esso pochissimo e non ha fatto nulla.

Matteo Renzi è partito lancia in resta. Poi si è bloccato. Ha lanciato alcune riforme importanti, come il Jobs Act, tuttavia non è riuscito a completare altre riforme essenziali (si pensi alla Pubblica amministrazione). Ha scommesso tutto sulla riforma costituzionale (lanciando imprudentemente un referendum poi trasformato in un’ordalia) e sulla nuova legge elettorale (costretto ora a fare passi indietro). Ma ha mancato di capitalizzare la luna di miele, soprattutto il notevole successo alle elezioni europee. Avrebbe dovuto approfittarne per seguire una politica economica coraggiosa, con un taglio delle tasse sul reddito anche a costo di sforare il limite del 3% al disavanzo pubblico. Glielo avevano consigliato Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, che non sono certo dei populisti euroscettici. La Spagna ha seguito questa strada e adesso cresce del 3%.



Intendiamoci, anche gli spagnoli hanno pagato un prezzo sociale molto alto. Il Paese ha perso due milioni di posti di lavoro (l’Italia 900 mila), pur avendo un tasso di disoccupazione altissimo (oggi è ancora al 19,6%). Tuttavia ha ricaricato la molla. Non solo, aver salvato le banche con l’aiuto europeo ha fatto sì che si aprisse il rubinetto del credito che in Italia, invece, resta ancora chiuso. Proprio sulle banche il governo italiano è stato a dir poco distratto: ha creduto alla propaganda sul loro stato di salute (“il sistema è sano”, veniva ripetuto come un mantra) e non è intervenuto prima che scattasse il bail-in.

Certo, bisogna dire che il mondo delle imprese non ha aiutato, come si vede dallo “sciopero” degli investimenti. Quanto ai banchieri, la maggior parte ha pensato a salvare le poltrone, senza nemmeno riuscirci (lo dimostra il tourbillon di presidenti e amministratori delegati). Ma sia Letta, sia Renzi hanno creduto che con la crescita tutto si sarebbe aggiustato automaticamente: il bilancio pubblico, l’occupazione, i redditi da lavoro e le banche. Invece, la crescita non è arrivata anche perché bisognava sganciare la zavorra che tiene a terra l’economia, a cominciare dai crediti marci.

Non è facile rimediare. Padoan ammette che le risorse sono poche e che il negoziato con Bruxelles sarà arduo. Il grosso della manovra, cioè 15 miliardi, serve per rinviare l’aumento dell’Iva; resta uno 0,5% del Pil, cioè circa 8 miliardi di euro da racimolare per distribuire un po’ di coriandoli più o meno elettorali. Dare qualcosa a tutti senza accontentare nessuno non è esattamente una politica saggia. Tutt’al più, serve a galleggiare.

Il documento che prepara la legge di bilancio mostra che il governo ha tirato i remi in barca. L’Italia potrà crescere solo mettendo le vele al vento di una robusta domanda internazionale. Siccome questa non c’è, meglio ripiegare il fiocco, contando ancora sull’aiuto della Bce (sia il Tesoro, sia la Banca d’Italia sono convinti che l’espansione monetaria non si fermerà il prossimo marzo) e sperando che al referendum vinca il Sì. Vedremo se il dibattito in Parlamento sarà ispirato da un briciolo di senso degli interessi nazionali oppure se prevarrà l’assalto alla diligenza mascherato da più o meno solide strategie politiche. Vedremo è un modo di dire retorico, perché in realtà abbiamo già visto l’aria che tira.