Nel mio articolo di ieri mettevo in evidenza i rischi e le storture che si stanno sostanziando all’interno del programma di Qe della Bce, ma non pensiate che se Francoforte piange Washington abbia granché da ridere. I rischi di una recessione conclamata negli Usa stanno aumentando molto velocemente e, a questo punto, la Fed non ha davvero più margine di errore. Il continuo balletto sul rialzo dei tassi, semplicemente impossibile se non si vuole far schiantare Wall Street, è lo specchio di questa impotenza di fronte a un mostro che si è creato e che ora ci si ritorce contro. 



La liquidità si sta prosciugando e gli indicatori sui flussi di finanziamento parlano la lingua di uno squeeze ormai alle porte, un qualcosa che di fatto è l’epilogo di cinque trimestre consecutivi di profitti corporate in calo. Inoltre, la stessa Fed sta drenando liquidità attraverso i reverse repo e questo non può che aggravare una situazione già seria: «Stiamo assistendo a un serio deterioramento su base mensile, penso che l’America entrerà ufficialmente in recessione entro la primavera del prossimo anno. È assolutamente folle da parte della Fed pensare di alzare i tassi adesso», ha dichiarato Michael Howell della CrossBorder Capital. Di fatto, i segnali di deterioramento di cui parla anticipano il ciclo economico di 6-9 mesi. Quindi, non dobbiamo chiederci se gli Usa entreranno in recessione ufficiale, bensì, quando. 



Dall’inizio dell’anno la crescita del Pil nominale statunitense è continuata a calare, passando dal 4,2% al 2,5%: «Fa paura, quando il Pil nominale rallenta in questo modo si ha la certezza che seguirà un forte stress finanziario. La politica monetaria è troppo restrittiva e anche il più piccolo shock getterà gli Usa in una nuova recessione», vaticina Lars Christensen di Markets and Money Advisory. Il problema è che se questo dovesse accadere, in un mondo interconnesso e finanziarizzato come il nostro, a pagare il prezzo non sarebbero soltanto gli Usa, ma tutto il sistema globale dalla sue fondamenta: la Banca per i regolamenti internazionali (Bri) stima che il 60% dell’economia globale sia bloccata in un sistema monetario denominato in dollari e i debiti in biglietti verdi al di fuori degli Usa siano saliti a qualcosa come 9,8 triliardi. Il mondo non è mai stato così esposto a leva ai costi di finanziamento in dollari: sempre la Bri ritiene che le ratio di debito sia delle nazioni sviluppate che di quelle emergenti rispetto al Pil siano più alte di circa il 35% rispetto all’inizio della crisi Lehman Brothers. E la Cina non potrà fungere ancora da “cavaliere bianco” del mondo, visto che come vi dicevo qualche giorno fa ha spinto la sua bolla creditizia oltre il limite di sicurezza, arrivando a quasi 30 triliardi di dollari: oltretutto, con il fondato timore che i cosiddetti bad loans, le sofferenze, nel sistema bancario cinese siano dieci volte tanto il livello ufficialmente ammesso dalle autorità. 



Per Lakshman Achuthan dell’Economic Cycle Research Institute, «sicuramente gli Usa non entreranno in recessione quest’anno e nemmeno nei primi due mesi del 2017, ma dopo quel limite vediamo segnali preoccupanti. Il deterioramento del principale indice del mercato del lavoro Usa è molto chiaro». La velocità della massa monetaria M1 ha continuato a rallentare, toccando il minimo a 40 anni durante l’estate a 5,75 e i mercati cominciano a intravedere il combinato disposto di questa dinamica con il fatto che la Cina obbligatoriamente dovrà schiacciare il freno creditizio: da diluvio di liquidità a costo zero, ora si comincia a temere per un deserto che porti il costo del finanziamento a livelli da crisi conclamata. 

Già oggi vediamo che i tassi del finanziamento a 3 mesi sui mercati offshore euro-dollaro sono triplicati da luglio, arrivando a 0,93% e creando condizioni decisamente restrittive per chi deve finanziarsi a livello globale: il misuratore della liquidità Usa di CrossBorder oggi è agli stessi livelli raggiunti pochi mesi prima delle recessioni del 1990 e 2001 e subito prima di quella del novembre 2007. 

In condizioni simili, riuscire ad alzare i tassi senza provocare uno shock devastante è praticamente impossibile: il tasso di disoccupazione è risalito al 5% dal minimo di 4,7% toccato a maggio e i piani occupazionali delle piccole e medie aziende stanno lanciando segnali di avvertimento da mesi. Una cosa sola la Fed non può fare, ovvero compiere il medesimo errore che fece tra il marzo e l’agosto del 2008, quando cominciò una battaglia contro il rischio inflazionistico – che invece aveva già toccato il picco e stava sparendo – e diede vita a una politica di contrazione che ha scatenato l’uragano. L’ex vice-governatore della Fed, Stanley Fischer, questa settimana ha tenuto un discorso nel quale diceva chiaramente che la Fed aveva finito le munizioni e questo «potrebbe portarci dentro una recessione più lunga e profonda della precedente, non appena l’economia verrà colpita da uno o più shock negativi». 

C’è però un’opzione sul tavolo, la vecchia cara warfare, ovvero l’effetto moltiplicatore del Pil garantito da eventi bellici. Non a caso, da almeno una settimana, tutti i media occidentali stanno caricando di significati la battaglia per la liberazione di Mosul come se si trattasse di una nuova Stalingrado. Gli americani non sono così pazzi da cercare un conflitto diretto con la Russia, quindi hanno abbandonato lo scenario siriano e puntano tutto sull’Iraq: un’escalation militare unita alla tensione per il voto presidenziale consentirebbe ai mercati di sfogare la loro preoccupazione senza che eventuali cali prolungati rimandino nell’opinione pubblica il sentore di una crisi sistemica. Ma, soprattutto, nei momenti di fibrillazione, il fatto che grandi entità finanziarie scarichino ciò che hanno in pancia, per non ritrovarselo a bilancio quando davvero il bagno di sangue sarà in atto, passa sotto silenzio, perché comunque sia la colpa dell’instabilità è della tornata elettorale particolarmente dura e volgare e delle avversità belliche in Medio Oriente. A quel punto la Fed avrà gioco facile nel poter non solo rimandare sine die l’aumento dei tassi, ma anche dipingersi come “cavaliere bianco” e intervenire a sostegno dei mercati: non solo americani, perché durante i primi due anni di Qe, la Federal Reserve con le sue swap lines ha di fatto tenuto in piedi il sistema bancario europeo, a fronte dell’immobilismo della Bce. 

Insomma, l’America sta nei fatti entrando in una nuova recessione, ma esiste la possibilità che questa venga posticipata grazie a manovre emergenziali, le quali sicuramente saranno benedette da un Obama che almeno fino a gennaio resterà il comandante di capo, qualsiasi sia il risultato che uscirà dalle urne l’8 novembre. Il problema resta, però: perché se la mia ipotesi si rivelerà esatta, al carico debitorio devastante con cui stiamo già facendo i conti, occorrerà sommare altro leverage figlio degli interventi della Fed. Quel debito non sparisce, si nasconde sotto il tappeto, ma prima o poi salta fuori di nuovo: certo, l’economia magari si sarà rafforzata un po’ nei fondamentali grazie al nuovo doping, ma sarà solo un miglioramento artificiale di dati macro gonfiati. 

La follia cominciata nel 2009 prima o poi verrà a riscuotere il conto e la Fed non potrà andare avanti a vita mantenendo i tassi a zero, se non negativi. A meno che l’approdo già deciso non sia quello della helicopter money, nel qual caso entriamo in territori totalmente inesplorati. E diventerà superfluo anche tracciare dei possibili scenari: si navigherà a vista in un mare in tempesta. O, se preferite, si guiderà a occhi chiusi nella nebbia.