Ci risiamo col vizietto di Mediobanca. Il conflitto d’interessi. Architrave da sempre del grande business e del grande potere gestito da Enrico Cuccia negli anni d’oro del suo ferreo dominio sul sistema capitalistico italiano, poi insufficiente – con la globalizzazione finanziaria – a garantire gli stessi risultati, ma utile comunque a raccattare incarichi. Nel 2015 – classifica Thomson-Reuters – il primo gruppo italiano per numero di operazioni di merger and acquisitions firmate sarebbe stato Unicredit, prima di Mediobanca, Rotschild e Banca Imi, mentre per valore il leader sarebbe stata Goldman Sachs, seconda Lazard e terza Mediobanca. Piazzamenti ancora buoni, anche se certo non più da leader. Conseguibili anche senza conflitto d’interessi? Non si può sapere. È certo, invece, che l’utilizzo funzionale di interessi in conflitto irrita sempre più mercato e clienti. E, forse, Governo. Cos’è accaduto di nuovo?
C’è che Unicredit sta valutando se e quanto vendere di Pioneer, la sua brillante società di risparmio gestito che però, evidentemente, per la banca guida da Jean Pierre Mustier, potrebbe valere, oggi, più fuori dal gruppo che dentro, vista la scelta strategica di rafforzare, e molto, il patrimonio regolatorio. Bene, la nuova gestione appare sicura delle sue strategie, determinata, va lasciata operare e semmai valutata a posteriori. Quattro concorrenti sono schierati, con differenziata determinazione, per l’acquisto: il colosso francese del risparmio gestito Amundi, controllato dal Credit Agricole; la cordata Poste Italiane-Anima Holding-Cassa depositi e prestiti, a forte radicamento pubblico dunque; il gruppo australiano Macquarie e il gruppo britannico Aberdeen Asset Management.
Le ultime indiscrezioni di stampa, mai smentite, parlano di un’offerta da Amundi nell’ordine dei 4 miliardi di euro, contro un’offerta di Poste &C. di circa 3,5. Si vedrà. Quel che rileva è che advisor di Amundi sia proprio Mediobanca, schierata quindi contro la cordata Poste. È legalmente corretto che Mediobanca, il cui maggior singolo azionista “sindacato” è proprio Unicredit, lavori per uno dei concorrenti a questa gara informale per Pioneer? Avendo rapporti correlati importantissimi col venditore, come può neutralmente lavorare per uno dei possibili compratori senza inquinare oggettivamente le operazioni? E se Poste offrissero di più?
Sia chiaro: sicuramente non ricorrono infrazioni legali o procedurali, perché la scandalosa materia del conflitto d’interessi in Italia è stata normata tardi e male rispetto agli ambiti pubblico-istituzionali, ma non a quelli privati (si fa per dire privati: stiamo parlando di società che coinvolgono decine o centinaia di migliaia di risparmiatori azionisti). Ma altrettanto sicuramente è un modo di fare a dir poco antiestetico. E sul mercato questo si sa e si commenta.
Un’annotazione particolare in più: è ormai chiara a tutti una certa distanza che si è creata tra Mediobanca e il suo mondo di riferimento e il Governo Renzi. Mettere il bastone tra le ruote alla cordata creata da Poste, azienda pubblica, e “sposata” dal governo tramite la Cassa è un bel dispettuccio. Non da parte dei francesi, che fanno legittimamente i loro interessi, ma da parte della banca guidata da Alberto Nagel che, per esempio, in questa stessa fase, è associata a JpMorgan nel ruolo di advisor del Monte dei Paschi di Siena, banca in cui il governo è primo socio, accudita dal Governo che ne paventa il (potenzialmente rovinoso sul piano politico) crac finanziario. Ma anche lì: è che la storia non insegna nulla, se si pensa che fu proprio Mediobanca a fare da advisor nell’acquisizione di Antonveneta da parte del Montepaschi, che pagò lo sproposito di 9 miliardi di euro.
Però, per capire come siano possibili tali stranezze, va prima capito che non c’è alcun profilo né etico, né morale, né deontologico che superi le poche, stitiche norme da osservare formalisticamente. Tutto ciò che, in questi ambiti, non è esplicitamente vietato, è permesso. Come, altrimenti, interpretare l’indifferenza che ha accolto, sempre a proposito dei conflitti d’interesse di Mediobanca, il caso Parmalat-Lactalis?
Nel 2013, il giudice di Parma adottò una serie di misure a tutela della società dopo il controverso acquisto da 904 milioni di dollari di Lactalis American Group (Lag) che vedeva Lactalis giocare contemporaneamente su due tavoli, quello del venditore americano e quello del compratore tramite la cassa della neo acquisita Parmalat, di cui è il primo azionista. Ebbene, chi era il “consulente indipendente” di Parmalat, che ne avrebbe dovuto tutelare l’interesse a sborsare il meno possibile per la Lag, in questa assurda negoziazione con il proprio stesso azionista, che imponendo alla controllata italiana di acquistare da se stessa la controllata americana non faceva che trasferire liquidità da Parma a Parigi? Mediobanca!
L’istituto guidato da Alberto Nagel – ha scritto il magistrato – era “plausibilmente condizionato dalla prospettiva di riscuotere” 94 milioni di euro da Lactalis, cioè una parte dei 420 milioni prestati ai francesi per l’Opa con la quale avevano rilevato Parmalat l’anno prima. Eppure un “comitato parti correlate” di Parmalat ormai francesizzata aveva nominato Mediobanca quale consulente indipendente! Che aveva rilasciato ai francesi il suo “ok” (si chiama fairness opinion) sul valore della Lag il 22 maggio 2012. E sempre in quel testo il giudice rivela che Mediobanca aveva accettato, per fare da consulente, un prezzo pari a un terzo di quello chiesto dai concorrenti all’incarico, Rothschild e Hsbc, le altre due banche in corsa, da risultare “anomalo”. Per amore verso Parmalat o per seguire poi meglio, in quel ruolo, i propri interessi, e non quelli della società che avrebbero dovuto essere il pagare la Lag il meno possibile?
È il mercato, bellezza. E ci possiamo fare poco. Perché è poco, troppo poco, regolamentato. Almeno lamentarsene.