Mercoledì scorso l’Arabia Saudita ha fatto ricorso per la prima volta da decenni a un’emissione obbligazionaria per finanziare le casse pubbliche ed è stato un assoluto successo: l’asta ha fruttato 17,5 miliardi di dollari, il nuovo il record per un Paese emergente, dopo che a inizio anno l’Argentina era tornata a emettere debito per un controvalore che era stato pari a 16,5 miliardi di dollari. Certo, Ryad ha dovuto ingolosire gli investitori con un rendimento congruo in un periodo di tassi a zero e disperata ricerca di spread: le obbligazioni emesse a 5 anni hanno una cedola del 2,63%, quelle a 10 anni garantiscono un rendimento del 3,44%, mentre la scadenza a 30 anni arriva a dare a una cedola del 4,64%.



Il motivo di questo ricorso a un’emissione sovrana è noto: il crollo del prezzo del petrolio. Per decenni, infatti, i proventi del greggio sono stati abbondantemente sufficienti per pagare stipendi e finanziare il welfare del Regno, ma con le quotazioni arrivate anche in area 20 dollari al barile, le casse statali saudite sono andate in sofferenza. Il deficit è salito al 15% del Pil e le riserve estere hanno cominciato a scendere pesantemente, sia per contrastare la svalutazione del ryal, sia per finanziare la scellerata missione militare in Yemen. Inoltre, il governo ha dovuto tagliare stipendi, sussidi e aiuti alle famiglie, con un deficit pubblico che nel 2015 ha accumulato oltre 80 miliardi di dollari.



Ironia della sorte, i sauditi hanno dovuto bussare al mercato dei capitali internazionali proprio per il calo delle quotazioni del greggio di cui sono stati tra i principali responsabili. Nel tentativo di mandare fuori mercato i produttori di shale oil americani, infatti, l’Arabia non solo ha aumentato la produzione, provocando un ribasso dei prezzi a causa dell’effetto saturazione dell’offerta, ma ha anche dato vita a sconti per il mercato asiatico, di fatto sfidando Mosca in una guerra al ribasso che ha innescato un vero e proprio effetto dumping su scala pressoché globale. Un’operazione, quella di Ryad, che si è rivelata un fallimento, visto che la produzione di shale oil americana non si è fermata e tutti gli altri competitor mediorientali e la Russia hanno spinto l’output ai massimi record di sempre.



Insomma, quell’emissione è stata una manna, tanto più che la Capital Economics di Londra calcola che l’ammontare nozionale totale di quanto raccolto all’asta potrebbe finanziare circa un terzo dell’intero budget statale del prossimo anno e pressoché tutto l’attuale gap di conto corrente del Regno, di fatto frenando l’emorragia delle riserve di valuta estera. E quando l’inchiostro di quei bond non era ancora asciutto, Ryad aveva già cominciato a spendere il denaro. Stando a valutazioni di Bloomberg, i primi ad aver visto pagati gli arretrati di mesi che vantavano sono stati i grandi gruppi del comparto delle costruzioni, ma anche altre aziende di comparti strategici, tra cui l’estrattivo: per capire il livello della crisi, il Binladin Group, gigante delle costruzioni, ha licenziato 30mila dipendenti per contenere i costi. Il ministero delle Finanze ha garantito alle aziende creditrici che il 30-40% del debito in essere sarà saldato entro la fine di quest’anno e il rimanente entro l’autunno del 2017. Il ministro, Ibrahim al-Assaf, parlando nel corso di un’intervista con il network statale MBC, ha garantito che «i pagamenti saranno regolarizzati nel prossimo futuro», senza però fornire dettagli precisi.

L’unico gruppo che aveva visto parte del dovuto saldato era stato proprio il Binladin Group, verso cui era stata sbloccata una tranche d’emergenza lo scorso mese per evitare il rischio di fallimento totale. Ma l’asta della scorsa settimana non sarà l’unico tentativo del governo di racimolare fondi: il governo intende ottenere più di 100 miliardi di dollari attraverso revenues non petrolifere entro il 2020, soprattutto attraverso misure fiscali come la tassazione sull’Iva.

Il Fmi, il giorno precedente all’emissione, aveva dichiarato che il livello dell’austerity potrebbe allentare un po’ il prossimo anno, aiutando la ripresa della crescita economica non legata al greggio, la quale dovrebbe passare dallo 0,3% di quest’anno ad addirittura il 2,6%. «Il consolidamento fiscale, comunque, necessita di continuare almeno per i prossimi cinque anni», ha sottolineato il capo del Fmi per il Medio Oriente e l’Asia centrale, Masoos Ahmed, parlando a un congresso a Dubai. I fondi non serviranno soltanto per pagare gli arretrati, ma anche per stabilizzare il sistema bancario nazionale, soprattutto per calmare le sempre crescenti preoccupazioni per una svalutazione del ryal inevitabile e ormai in arrivo: per Capital Economics, «questa iniezione di capitali dovrebbe essere sufficiente per spazzare via ogni dubbio e timore per una svalutazione della moneta saudita. La ratio governativa debito/Pil salirà come conseguenza dell’emissione obbligazionaria, ma, visto il bassissimo livello da cui si partiva, difficilmente questo si tradurrà in tensioni sui mercati».

Anche Mohieddine Kronfol della Franklin Templeton Investments conviene sul fatto che il successo dell’emissione al debutto potrebbe rinvigorire i mercati finanziari sauditi: «Non solo quel bond potrebbe aiutare lo sviluppo del mercato del debito del Regno, attraverso l’introduzione di un tipo di investitore più sofisticato, ma ci sono altri effetti positivi per il reddito fisso dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo in generale, visto che sempre più investitori globali terranno d’occhio, più da vicino e più a lungo termine, la regione».

E i mercati sembrano credere alla svolta saudita, visto che il credit default swap del Regno ha smesso di ampliarsi negli ultimi mesi. Ma prima di emettere il proprio debito, Ryad ha scaricato quello di qualcun’altro per fare cassa: come ci mostra il grafico a fondo pagina, le detenzioni saudite di Treasuries Usa sono scese ad agosto da 96,5 miliardi a 93 miliardi, il livello più basso dall’estate del 2014. Anche la Cina nello stesso mese ha scaricato debito Usa con il badile, ma per motivi differenti: Pechino ha bisogno di operare off-setsulle pressione svalutative dello yuan, Ryad invece aveva volgarmente bisogno di liquidità urgente per operare a sua volta un off-set ma sul crollo del petrodollaro, di fatto ottenendo un effetto di backstop sul deficit di budget interno.

E questo cosa potrebbe portare come effetto collaterale? Prima di tutto occorre chiedersi a chi venga venduto quel debito Usa scaricato dai governi e la risposta è domanda privata, ovvero la stessa logica che sottende il mercato azionario, il cui destinatario finale è la clientela retail: per il debito Usa vale lo stesso, visto che gli investitori privati interni ed esteri diventano acquirenti di prima istanza di quanto le Banche centrali vogliono smobilizzare dalle loro detenzioni. E cosa succederebbe se dopo le istituzioni ufficiali estere, anche la clientela privata dovesse passare all’incasso, vendendo debito di Washington? La Fed sarebbe costretta a monetizzare più debito, ovvero operare in modalità – certamente sotto mentite spoglie – di Qe. Quindi, un qualcosa che agli Usa darebbe tutt’altro che fastidio, visto che come vi dicevo nell’articolo di sabato scorso, la Fed non può assolutamente permettersi di alzare i tassi nemmeno di un quarto di punto, stante il rischio di crollo dei mercati e aumento dei rendimenti obbligazionari che questo comporterebbe nell’immediato.

Se volevate la prova di quanto il mondo sia ormai totalmente interconnesso e finanziarizzato, penso che quanto vi ho appena descritto sia illuminante al riguardo.