Le democrazie a sviluppo maturo, con modelli di welfare molto strutturati, fiscalmente costosi, e in stagnazione demografica hanno ormai poco spazio per fare crescita interna. Il problema è risolvibile aumentando la produttività e la competitività delle imprese grazie alla rivoluzione tecnologica. Ma la maggiore efficienza industriale e dei servizi ha bisogno di trovare un più ampio mercato internazionale per vendere i prodotti e ottenere l’effetto di aumento dei redditi nazionali e individuali pur con minore spinta demografica.
Ciò è più importante per l’Italia, perché ha una grande densità di piccole imprese che non hanno i soldi, come le grandi, per accedere a un mercato internazionale con standard e regole diversi e carico di dogane. Pertanto è interesse primario per l’Italia, potenza esportatrice seconda solo alla Germania in Europa e quinta nel mondo per surplus commerciale estero, favorire gli accordi che “liscino” il mercato esterno in modo che un’azienda italiana possa operare, per dire, a Toronto, Tokyo, Miami, ecc., come lo fa in Italia.
Ovviamente tali accordi implicano reciprocità e devono calibrare i vantaggi in uscita con eventuali svantaggi creati dall’apertura alla concorrenza estera. Per tale motivo i trattati di libero scambio che è più facile rendere reciprocamente vantaggiosi sono quelli tra democrazie con costi sistemici e standard simili. La formazione di un mercato integrato europeo ha fatto guadagnare l’Italia e gli europei. Il Trattato di Lisbona (2009) delega l’Ue a siglare accordi commerciali esterni e ciò è un vantaggio teorico per l’Italia perché ne moltiplica la forza nazionale. Ma, in pratica, il potere del Parlamento regionale della Vallonia (Belgio) è riuscito a ostacolare un accordo commerciale di abolizione delle tariffe doganali tra Ue e Canada, Ceta, vantaggioso per tutti e per l’Italia in particolare. Come l’accordo euroamericano di mercato unico Ttip è bloccato non solo da dissensi, ma da un meccanismo di approvazione europeo vulnerabile al rifiuto di una sola nazione.
In sintesi, l’Ue si sta rivelando un soggetto negoziale non credibile, mettendo a rischio le trattative con America, Canada, Giappone, ecc., che sono vitali per l’internazionalizzazione delle imprese italiane con un rischio minimo e comunque controllabile di importare concorrenza penalizzante da loro. O cambia il meccanismo Ue o lo si carica di decisionismo politico verticale oppure l’Italia subirà un danno prospettico tale da dover valutare mosse autonome. Il Governo dovrebbe essere più attivo nel correggere questo difetto dell’Ue.