State pure tranquilli: fino al 5 dicembre, l’Europa non dirà nulla. Starà lì, rigida e severa come una maestra d’altri tempi, ma non c’è rischio che utilizzi la matita rossa: non può permetterselo. E non tanto perché Renzi pensa di aver stipulato la propria assicurazione sulla vita durante il viaggio negli Usa da Obama, ma per il semplice fatto che l’impalcatura stessa dell’Unione ormai è un fragile insieme di legni marci che sta in piedi soltanto grazie all’immobilità delle istituzioni: alla prima mossa, crolla tutto.
La notizia davvero importante è arrivata venerdì scorso, quando l’agenzia di rating canadese Dbrs ha confermato l’investment grade al rating per il credito del Portogallo: l’avesse tolto, la Bce non avrebbe più potuto comprare carta di Lisbona e l’accelerazione della fase finale della crisi europea sarebbe stata devastante. Ma anche ieri è arrivato un segnale chiaro dello stato dell’arte del Vecchio Continente: dopo aver fatto la faccia dura per un paio di settimane, il board dei direttori dell’Esm, lo European stability mechanism, ha autorizzato il versamento di 2,8 miliardi al governo greco, fondi che costituiscono la seconda tranche della prima parte del terzo prestito dell’eurozona. «La decisione di oggi è la dimostrazione che il popolo greco sta facendo costanti progressi nel riformare il Paese: il governo ha completato le misure fondamentali nel settore delle pensioni, della governance delle banche, dell’energia e nella raccolta delle imposte», ha commentato il direttore dell’Esm, Klaus Regling.
Balle, i conti greci sono a pezzi e non passa giorno che le strade di Atene non siano invase di manifestanti: ma basta che le telecamere restino spente e il gioco è fatto. L’esborso di 2,8 miliardi consiste in due tranche: un miliardo è stato approvato in seguito all’attuazione delle 15 misure considerate “pietre miliari” del programma di riforma concordato per ottenere il terzo prestito dai creditori eurozona e sarà usato per pagare gli oneri del debito. Il resto, 1,8 miliardi, può essere sborsato, indica l’Esm, dopo la valutazione positiva della soluzione degli arretrati netti da parte della Grecia. Questa seconda tranche del versamento sarà trasferita in un conto speciale per la regolazione degli arretrati. All’economia ellenica – e quindi ai cittadini – non arriverà niente, è la solita partita di giro: io do i soldi ad Atene, la quale così può ripagarmi di quanto mi deve. Ipocrisia allo stato puro.
Klaus Regling ha inoltre indicato che ci sono le condizioni per il completamento della seconda verifica del programma di riforme nei tempi previsti: l’Eurogruppo aveva dato l’ok già l’11 ottobre, ma la seconda tranche, 1,7 miliardi, era stata congelata in attesa di verifiche sugli arretrati dello Stato con i privati. E la verifica ha dato esito positivo, guarda caso anche perché, giova ripeterlo, tutti i soldi, come sempre, torneranno a stretto giro di posta ai creditori. Dopo l’esborso di ieri, l’assistenza finanziaria dell’Esm ha raggiunto i 31,7 miliardi su un totale previsto fino a 86 miliardi: a oggi, Esm e Efsf (il primo fondo salva-stati istituito dalla zona euro per i salvataggi dei Paesi) hanno sborsato 173,5 miliardi alla Grecia.
Ma non essendo veri fondi per il governo, bensì denaro che tornerà a stretto giro di posta a Bruxelles, i guai per Atene non sono affatto finiti: il governo Tsipras, per stare agli impegni, dovrà liberalizzare il mercato del lavoro e rimettere mano a fisco e tasse, come chiede il Fmi, con l’obiettivo di arrivare a un’intesa tra novembre e marzo, per avviare poi i negoziati sul taglio al debito di 320 miliardi. Anche qui, come con il Portogallo, si calcia avanti il barattolo, ma la Grecia è fallita nei fatti: o le si condona la gran parte del debito, dandole la possibilità di ripartire o è inutile prendere in giro la gente.
E l’Italia? Voci di corridoio dicevano che nella serata di ieri era in partenza una lettera della Commissione in merito alla legge di Bilancio, presentata nove giorni fa ma in maniera assolutamente informale e incompleta. I rappresentanti della Commissione sono già al lavoro nelle stanze del ministero dell’Economia, dove sono arrivati domenica, ma non per spulciare i conti della manovra (ancora sconosciuti a tutti, di fatto) e suggerire aggiustamenti da fare in corsa, bensì nell’ambito di una visita che il governo definisce «di rito» legata agli “squilibri macroeconomici” del nostro Paese. Anche in questo caso, il patto è chiaro: Bruxelles non romperà le uova nel paniere a Renzi prima del 4 dicembre, ma dopo, piaccia o meno, il conto presentato dall’Europa andrà pagato.
E non pensiate che la questione si limiti al decimale di deficit da tagliare di cui si vocifera in queste ore, ovvero portandolo dal 2,3% al 2,2% o al disavanzo strutturale da ridurre e portare dall’attuale più 0,6% ad almeno a più 0,5%. L’Europa non lo fa perché ama particolarmente Renzi, soprattutto la Germania dopo il blitz al Consiglio europeo contro nuove sanzioni verso la Russia, ma perché sa che in caso di vittoria del “Sì”, il premier sarà in grado di reggere una manovra di aggiustamento, magari facendo marcia indietro su alcune scelte messe nella legge di Bilancio: leggi, parte delle mance a pioggia presentate con scopo unicamente elettoralistico. In caso di vittoria dei “No” e crisi di governo, toccherà ai tecnici mettere mano ai conti dello Stato, dando la colpa al predecessore: in ogni caso, Bruxelles avrà vita facile a imporre la sua ricetta. Roba da troika, per capirci.
La Germania non può infatti permettersi di affrontare le elezioni politiche con Bruxelles che si mostra debole con gli Stati che non rispettano i patti e si caricano di debito, ma per ora nessuno ha interesse a tenere alta la polemica. Di fatto, l’esame vero e proprio dei Documenti programmatici di bilancio avviene entro il 30 novembre: a quel punto, la Commissione potrà decidere, magari non di bocciare ma di esprimere un parere negativo e invitare il governo a rivedere i conti. Il tutto, però, a referendum passato. E, magari, vinto.
A confermare questo do ut des ci ha pensato lunedì anche il Corriere della Sera, a detta del quale Roma e Bruxelles avrebbero siglato una sorta di accordo per portare a casa il “Sì” al referendum del 4 dicembre. Stando a fonti vicine al dossier, infatti, i tecnici dell’Unione europea aspetteranno il 5 dicembre per esprimere le proprie opinioni sulle leggi di Stabilità, quella italiana inclusa. Prima di allora, insomma, a Roma non arriverà nessuna procedura di infrazione. «In concreto – si leggeva sul Corriere della Sera – una procedura per deficit eccessivo non comporterebbe la rinuncia alla sovranità come accaduto alla Grecia. Parigi, Madrid o Lisbona sono da anni sotto procedura, senza che in superficie ciò trasformi la loro vita politica».
L’8 dicembre, poi, il Consiglio direttivo della Bce sarà chiamato a decidere come e per quanto continuare gli acquisti di titoli di Stato e questa volta Draghi non potrà prendere altro tempo: Il combinato disposto di referendum, ballottaggio alle presidenziali austriache e scelte della Bce sul Qe non permette alcun tipo di innalzamento della tensione. Fino all’8 dicembre sarà tutto conciliabile e gestibile: dopo arriverà il redde rationem. E per noi potrebbe rappresentare davvero un conto molto salato da dover pagare.