“L’Italia chiede un’altra tregua fiscale. E ha ragione”. Il Financial Times si è schierato così con il Bel Paese contro i rilievi della Commissione Ue alla manovra. Al di là dei numeri, del resto modesti, del contenzioso, agli occhi del giornale della City è giusta la terapia di far correre il debito per contrastare il rischio recessione. O “l’ombra di una caduta degli investimenti destinata a produrre effetti duraturi e pesanti”, come paventa il capo economista della Bce Peter Praet. Al di là delle non poche pecche della finanza pubblica italiana e il malgoverno garantito dalla corruzione che resiste impavida alla scure di Catoni e sceriffi, è corretta e sensata l’idea di sostenere con azioni di politica fiscale, oltre che con le armi della moneta, la ripresa, per ora fragile ed esposta al rischio di ricadute. 



È la strategia che sembra prevalere all’interno della Bce. Le ultime indiscrezioni danno per certo l’allungamento degli acquisti della banca centrale fino al prossimo marzo. Non solo. Sta prevalendo la tesi di accantonare la key rule, la regola che impone all’Eurosistema di acquistare bond in proporzione alla partecipazione di ogni singolo Paese al capitale della Bce. La modifica permetterebbe di ridurre gli acquisti ad esempio di titoli di Stato tedeschi, i cui rendimenti fino a 5 anni sono spesso inferiori alla soglia minima di -0,40% sotto la quale la Bce non può acquistare, favorendo invece un incremento dell’attività sulla carta periferica, come quella italiana, accelerando l’opera di risanamento del sistema bancario più a rischio dell’Eurozona dopo Grecia e Portogallo. 



Non è detto che vada a finire così: pochi giorni fa i gossip da Francoforte mettevano l’accento sul possibile tapering (cioè la riduzione degli acquisti), che, in linea di principio, è cosa ben diversa. Ma è probabile che, almeno per ora, prevalga la tesi di assecondare anche sul fronte monetario, una politica fiscale più morbida, così come si è fatto fin dagli inizi della moneta comune, assecondando la spesa oltre i limiti consentiti della Germania, della Francia e poi, in anni più recenti, della Spagna. Ma si tratta di Paesi, si può obiettare, che hanno ben sfruttato l’eccezione rispetto alle regole, come dimostrano l’andamento delle rispettive economie. Il Pil europeo, in media, è ormai risalito ai livelli del primo trimestre del 2008, mentre l’Italia è ferma a quelli dell’anno Duemila. 



Dall’inizio del secolo, il Paese ha accumulato un ritardo del 20% nella crescita, il 26% nei confronti della Spagna che pure ha vissuto una recessione più violenta della nostra, ma che ha adottato negli ultimi anni una terapia ben più violenta ma efficace. Cos’è mancato all’Italia rispetto a Madrid? Per Tristan Perrier, strategist di Amundi, i colpevoli sono due: a) il ritardo nella ristrutturazione del sistema bancario. L’Italia ha rinunciato, a differenza della Spagna, all’aiuto dell’Ue, ma così non c’è stata la pressione necessaria per accelerare la ristrutturazione: i casi di Monte Paschi, Popolare di Vicenza, Veneto Banca piuttosto che Popolare dell’Etruria andavano affrontati prima. b) l’incertezza politica e la fragilità del governo che potrebbe protrarsi in caso di successo del No al referendum.

A questi fattori noti Perrier ne aggiunge uno sorprendente: il calo dei tassi, prezioso per il bilancio pubblico, ha giocato a sfavore delle famiglie italiane. L’impatto del Qe è stato meno rilevante che altrove perché: a) il settore privato italiano è meno indebitato di quello di altri Paesi, perciò l’impatto dei tassi bassi è stato più modesto; b) i rendimenti più bassi hanno danneggiato i risparmiatori. Il risultato? Tra il 3° trimestre 2008 e il 4° trimestre 2015, la riduzione del reddito disponibile delle famiglie italiane è stato del 5% circa, mentre la riduzione dei pagamenti è stata solo del 2%. In Francia e in Germania l’effetto è stato neutro, in Spagna positivo per il 3%. 

Insomma, l’Italia ha sfruttato assai peggio degli altri le opportunità della politica comunitaria. Senza dimenticare gli handicap accumulati nel tempo che oggi rappresentano un fardello insostenibile: la mancanza di trasparenza, l’assenza di una reale politica della concorrenza (che resta da sempre nel cassetto), il gap demografico e un livello della corruzione crescente. 

Basta così, Non si può chiedere a una manovra finanziaria di affrontare tanti problemi, complessi e radicati nel tempo. Ma si può tentare di accelerare sulla strada delle riforme virtuose. A partire dalle banche fino a un recupero (già avviato) della produttività. Solo così potremo legittimare la richiesta a Bruxelles di una maggior libertà d’azione nella politica fiscale.