Che cosa nascondono le grida di Matteo Renzi e i sussurri di Pierre Moscovici? Il capo del governo italiano si agita e alza la voce per cercare di svincolarsi dall’abbraccio della Commissione europea temendo che possa diventare politicamente mortale, a breve con il referendum del 4 dicembre, e a medio periodo con la lunga campagna elettorale che ci porterà al voto politico della primavera del 2018. Il commissario agli Affari monetari, dal canto suo, tiene il punto perché appare abbastanza evidente che in molti aspetti chiave la Legge di bilancio italiana non regge (troppe misure una tantum, una certa sopravalutazione della crescita, un disavanzo pubblico ancora eccessivo), ma cammina sulle uova, si rende conto che una rottura sarebbe politicamente disastrosa per un’Unione più disunita che mai.



Nell’un caso e nell’altro, al primo posto non c’è l’economia, ma la politica. Il paradosso di questa fase, infatti, è che comincia un lungo ciclo politico che durerà non meno di quindici mesi, un ciclo che si apre in Italia e si chiude in Italia. Anche se nel mezzo ci saranno appuntamenti elettorali molto importanti dalle presidenziali francesi la prossima primavera alle elezioni politiche in Germania a settembre, la situazione italiana (i suoi equilibri parlamentari, la sua forma governo) sarà la vera cartina di tornasole.



Molto dipende, è naturale, da chi vince il referendum. Se Renzi prevale, potrà gestire con una certa autonomia l’ultima fase di una legislatura di transizione, una transizione lunghissima, che non finisce mai di finire, da un assetto politico-istituzionale, quello chiamato della seconda repubblica, a un altro che allo stato attuale è impossibile delineare con chiarezza. Renzi potrà dire di aver messo in cantiere riforme importanti e di averne realizzate due davvero coraggiose (mercato del lavoro e Costituzione), ma nessuno è ancora in grado di capire come funzionano e quale impatto avranno sui fondamentali del Paese.



Ciò è evidente per il nuovo assetto istituzionale, ma in fondo anche per il Jobs Act, perché tutte le polemiche sulla sua efficacia sono vittime del breve periodo; invece, dato che la riforma riguarda i nuovi occupati, si potrà verificare solo tra qualche anno se il mercato del lavoro italiano resta rigido e precario oppure se diventa flessibile e stabile.

Se vince il cartello del No, tutto si fa più confuso, le redini passano nelle mani del presidente della Repubblica, il quale molto probabilmente si orienterà verso un governo elettorale con o senza Renzi al timone. In ogni caso sarà una situazione incerta, mesi dominati da manovre di palazzo in vista del voto; un anno sprecato a distillare alchimie in un clima di rissa, con impatto certamente negativo su un’economia che, giunti nell’ultima fase della legislatura, ha mancato alcune occasioni forse irripetibili. Non è una novità. La storia italiana è piena di occasioni perdute. Ma questa volta c’è davvero di che mangiarsi il fegato.

Si pensi solo alla politica monetaria estremamente favorevole all’Italia. Mario Draghi, rispondendo alle critiche, soprattutto tedesche, ha detto che la Bce non ha favorito i paesi più deboli o periferici; nel senso che non lo ha fatto a posta, le sue decisioni avevano in mente l’euro, i prezzi e la stabilità finanziaria, l’uscita dalla lunga recessione. Ma resta il fatto che il Tesoro italiano ha risparmiato almeno 80 miliardi di euro in tre anni, le banche hanno avuto un’iniezione di liquidità senza precedenti che ha consentito loro di comprare titoli senza più il rischio sovrano corso nel 2010-2011 (lo spread, il mostro che si mangiava i nostri risparmi è retrocesso a livello di spettro), il governo ha potuto indebitarsi ancora, finanziando in deficit la spesa assistenziale, sociale, e talvolta persino clientelare. E qui bisogna spezzare una lancia a favore della commissione Ue: quando Moscovici chiede che fine hanno fatto i 19 miliardi di flessibilità concessi l’anno scorso, Renzi risponde parlando d’altro.

Il fardello maggiore che questa legislatura trasferisce sulla prossima è naturalmente un debito pubblico cresciuto nonostante la ripresa (per piccola e fragile che sia), ma è anche una produttività della “azienda Italia” che continua scendere, con l’industria che non investe e i servizi che non tengono il passo della modernizzazione in corso nei paesi nostri concorrenti, Spagna compresa. Dunque, lanciando lo sguardo oltre le polemiche contingenti, cercando di leggere non solo i segni della congiuntura, ma le tendenze quanto meno di medio termine, bisogna riconoscere i limiti profondi del governo, del parlamento, della classe politica nel suo insieme, di maggioranza e d’opposizione. Non per fare di tutt’erba un fascio, ma per non farsi troppe illusioni.

L’opposizione di destra, grillina e di sinistra, ha giocato allo sfascio, rifiutando di sostenere qualsiasi misura del governo, persino sul terremoto prevale la contrapposizione. La maggioranza a sua volta non è stata in grado di allargarsi quando si trattava di affrontare priorità davvero nazionali e qui l’esempio più eloquente, a parte la riforma costituzionale, è la politica estera e di sicurezza che comprende anche l’accoglienza dei profughi.

Sussurri e grida, dunque, continueranno ad alternarsi, sperando che qualche nuova tempesta finanziaria non interrompa questo balletto rococò.