Comprata – si dice – per 51 milioni di euro circa due anni fa, rivenduta per 30 un anno fa a Just Eat e ora chiusa da quest’ultima proprietà, salvando 16 dipendenti su 50, conservando circa 500 ristoranti in rete e, si dice, un milione di clienti che adesso potranno in parte riconvertirsi a Just Eat e in parte anche no: è la stupefacente parabola di Pizzabo, una start-up bolognese delle consegne di pizze (e cibo vario) a domicilio, una storia strana che introduce un punto interrogativo in più su un fenomeno metropolitano, il “food-delivery”, che sta colorando le strade di Milano, Roma, Bologna e varie altre città italiane con ciclisti e cilomotoristi vistosamente abbigliati con casacche sgargianti, fra l’attenzione dei sociologici e l’entusiasmo dei “digitalebani”, i fanatici di Internet, pronti a gridare al miracolo a ogni nuova app che spunti sui display degli smartphone.
Ma come mai un’aziendina che sembrava un gioiello ed era stata strapagata chiude in quattro e quattr’otto? E che consistenza ha la moda delle consegne a domicilio di cibo? Un osservatorio interessante per capirci qualcosa è quello di Matteo Sarzana, il general manager per l’Italia di Deliveroo, una delle società internazionali del ramo più note. Con parole diverse dalle sue, il problema del food-delivery che Sarzana descrive ricorda quello di Jessica Rabbit: “Non sono cattiva, è che mi disegnano così!”. Ovvero, di apprezzabile e comunque innocuo, nel fenomeno del “food-delivery”, c’è tanto: c’è l’idea di mettere a disposizione il piacere del ristorante a un prezzo più accessibile del locale pubblico, e quindi alla portata di chi non se lo potrebbe permettere; o anche a chi vuole godersi una buona pizza, che a casa non si può cucinare, o un buon hamburger, idem, con un po’ di amici stravaccati sul divano del salotto per un film… Per i fattorini – che mediamente fatturano poche migliaia di euro all’anno – si tratta di lavoretti integrativi: ideali per completare il magro bilancio degli impieghi part-time, per agevolare l’auto-sostentamento agli studi degli universitari fuorisede, per i giovani extracomunitari in attesa di più stabile occupazione… Per il business…dipende. Lo spazio c’è, e cresce ancora: la concorrenza anche, però. E il caso Pizzabo lo conferma.
L’importante, insomma, è non “disegnare” questo fenomeno con tinte diverse da quelle effettive. Non stiamo parlando di alta cucina a domicilio: quella, la fanno le grandi società di catering che montano i fornelli e trasferiscono interi staff culinari nelle case – di solito spaziose e lussuose – di clienti che pagano decine e decine di euro a testa per i loro invitati. Non stiamo parlando di soluzioni “sistemiche” e radicali al dramma della disoccupazione giovanile: sono pochi, fra i trecento fattorini che, ad esempio, occupa Deliveroo a Milano quelli che “ci campano” e ancor meno quelli che pretenderebbero di camparci. Per gli altri, sono lavoretti, ma sono utili: basta saperlo.
Lavoretti che comunque – e questo va pur detto – possono fruttare in media anche 100 euro lordi al giorno a chi pedala tutta la giornata, il che può far totalizzare 2000 al mese, senza nessuna preparazione specifica (basta la buona salute), senza vincoli di titolo di studio, e soprattutto senza obblighi di orario o prestazione: se uno non può onorare il turno, non ci va e basta, tanto che l’azienda deve sovraccaricare del 30% i ruolini proprio per non rimanere scoperta.
Di qui a parlare del food-delivery come della pietra filosofale per i problemi economici dell’Occidente o a descrivere il fenomeno col tono giulivo dei cantori oltranzisti della “app-economy”, ne corre. Ma è appunto quel che pensa Sarzana – 35 anni, una bella carriera nella pubblicità tradizionale e poi la svolta manageriale nel mondo delle nuove imprese. Chi esagera “dipingendo così” queste start-up di food-delivery, cioè pretendendo di individuare in esse il simbolo del nuovo che avanza, nuoce innanzitutto proprio a loro: “E poi non vorrei più sentir parlare tanto facilmente di start-up”, aggiunge lui, “perché l’accezione esatta di questo termine inglese, per me, andrebbe limitata ad aziende distinte da un tasso di crescita molto maggiore di quello delle aziende normali, direi quattro volte più veloce. Altrimenti sono aziende dinamiche, innovative, quel che si vuole… ma sono un’altra cosa!”.
E forse la riprova dell’opportunità di inquadrare nella luce giusta la moda del food-delivery – né ciarpame, né toccasana – viene proprio dal caso di Pizza Bo. Il gruppo tedesco Rocket Internet – in verità, famoso per le sue operazioni mordi-e-fuggi sul mercato finanziario, compro oggi e rivendo al doppio tra sei mesi – l’ha acquistata a inizio del 2015 appunto per 51 milioni di euro, dopo 5 anni dalla fondazione. L’ha poi rivenduta nella primavera scorsa ai danesi di Just-Eat per 30. Che dopo poche settimane hanno deciso di chiudere bottega e trasferire da Bologna a Milano i dipendenti: che hanno accettato in 16 su 50. Di strano, rispetto alle logiche della “old economy” ci sono i tempi sincopati di questa strana sfida ingaggiata e abbandonata a tambur battente. C’è il disinganno del fondatore materano di Pizzabo, Christian Sarcuni, che si è dimesso dissociandosi della mossa di Just Eat, ma è del resto ben sazio dei proventi della prima vendita, da lui a Rocket. E c’è l’errore di valutazione fatto dagli americani, nel comprare male: ma errori, nel crescere tanto, e in fretta, e in tanti mercati diversi, ne possono ben capitare.
Peraltro, il progetto globale era furbo: integrare l’acquisizione dell’azienda italiana in una divisione molto grande, chiamata Global Online Takeaway Group, con dentro la spagnola Nevera Roja, una quota nella Delivery Hero (un colosso da 496 milioni di euro attivo in 24 Paesi con 90mila ristoranti) e ancora Foodpanda, forte in Asia. Ma non tutte le ciambelle riescono col buco. O meglio: dipende dal gioco del prezzi…
Di sicuro, il settore non è ancora assestato: sta crescendo tumultuosamente, in disordine, con trionfi e disastri. E anche in Italia il campo di battaglia è tutt’altro che pacificato. Just Eat, colosso danese, fronteggia appunto Deliveroo e Foodora, punzecchiate tutte e tre da più piccoli concorrenti come Bacchetteforchette, myFOOD o Moovenda. Niente di che. Una normale guerra commerciale in un settore nuovo, anche se non nuovissimo. L’importante è non chiamarla economy qualcosa. È commercio, nuova edizione.