Il primo e il due novembre, nel Palazzone in stile tardo fascista di Constitution Ave., N.W., in quel di Washington D.C. (denominazione esatta della capitale degli Stati Uniti), si riunisce il Comitato federale del mercato aperto (in gergo il Fomc), la massima autorità monetaria degli Stati Uniti. L’appuntamento successivo è calendarizzato per 13-14 dicembre. È altamente probabile che in nessuna di queste due riunioni verranno toccati (ossia aumentati) i tassi di interesse (ossia il federal fund rate, il tasso per le transazioni interbancarie “overnight”, di notte e a mercati chiusi, di diretta competenza del Fomc e, di conseguenza, gli altri).
Il Fomc non muoverà paglia non per ragioni economiche o finanziarie, ma strettamente politiche: aumentare i tassi una settimana prima delle elezioni o durante il transition period, quando il Presidente cede le consegne al nuovo eletto, potrebbe essere letto come interferenza sulla politica. È altamente probabile, invece, che la misura venga rinviata alla sessione del 31 gennaio-1 febbraio, dopo l’insediamento del nuovo inquilino della Casa Banca.
Che si tratti di un provvedimento non più rinviabile per troppe settimane lo affermano non solamente i dati sull’andamento interno dell’economia americana (specialmente quelli sul mercato del lavoro), ma il forte afflusso di capitali dall’estero verso gli Stati Uniti. In un documento, ancora inedito, per il Council on Foreign Relations degli Stati Uniti, Brad W. Setser, a lungo dirigente del Tesoro Usa, riassume studi tecnici sui flussi di capitale entrati negli Usa negli ultimi due anni.
Si tratta di ben 750 miliardi di dollari, una cifra pari a circa un terzo del Pil dell’Italia: circa 500 miliardi vengono da operatori finanziari europei e asiatici che acquistano prevalentemente obbligazioni (titoli di stato Usa o emissioni di grande imprese come la General Electric e l’Ibm), mentre gli altri 250 miliardi sono principalmente fondi di operatori americani che ritornano a casa dati i bassi tassi d’interesse (e gli ancora più bassi rendimenti) in Europa.
Ancor più interessante, l’analisi monumentale di Sydney Homer e Richard Sylla A History of Interest Rates (Whiley Finance 2007), un lavoro che in queste settimane andrebbe letto e riletto: i due studiosi tracciano la storia di cinquemila anni di tassi di interesse (dai tempi dei Sumeri a oggi); quella rilevante è dalla fine del Medio Evo e, soprattutto, dall’inizio del Rinascimento (quando l’Italia, specialmente Firenze e Siena, dettavano la rotta in materia di tassi d’interesse). Come mostra il grafico a fondo pagina, i tassi (in termini sia di tasso di sconto che di rendimento delle obbligazioni) non sono mai stati così bassi dai decenni successivi alla scoperta dell’America quando l’afflusso di oro, argento e altri preziosi dal “Nuovo Mondo” provocò quella che in termini moderni si definirebbe una grande e lunga deflazione.
Kevin A. Hassett, in uno degli ultimi fascicoli della National Review, sottolinea, in un editoriale, come ormai la svolta sia imminente. Hassett ne scava gli aspetti per le politica monetaria americana. Setser si sofferma sul savings glut (l’eccesso di risparmi rispetto alle possibilità di investimenti) che a livello mondiale supererebbe 1,2 milioni di miliardi di dollari, il livello raggiunto (è al tempo stesso un segnale e un avvertimento) alla vigilia della crisi finanziaria del 2008, quando il glut fu all’origine di investimenti spericolati (dal subprime lending ai derivati più complessi e più opachi).
Gli Stati Uniti intendono evitare il ripetersi della situazione ed è verosimile che, dopo le elezioni presidenziali, l’incremento dei tassi sarà meno graduale di quanto non sia avvenuto nel passato.
Andiamo alle implicazioni per noi. Un rapido aumento dei tassi ha tre conseguenze immediate: a) la crescita economica; b) il debito pubblico e il suo rifinanziamento, man mano che i titoli vengono a scadenza; c) alcune misure specifiche di politica tributarie previste nella Legge di bilancio che sta per essere esaminata dal Parlamento.
L’incremento dei tassi d’interesse Usa avrà l’effetto di rallentare la crescita in Europa; i venti istituti del consensus stimano mediamente sull’1% l’aumento del Pil dell’eurozona nel 2017 (rispetto all’1,5% del 2015). Ciò non potrà non avere ripercussioni sull’Italia, la cui crescita si assesterebbe sullo 0,5-0,6% del Pil con conseguenze sul gettito tributario e sul rapporto debito/Pil (da qui le preoccupazioni delle autorità europee rispetto ai conti dell’Italia). Tre determinanti aggraveranno la situazione del debito pubblico: a) la più bassa crescita del Pil (che avrà l’effetto di aumentare il rapporto debito/Pil), b) il più alto costo del rifinanziamento; c) il conseguente incremento del Pil in termini assoluti (alto motivo di preoccupazione). In questo contesto, occorre chiedersi se misure come la voluntary disclosure avranno effetti positivi.