Il senatore Massimo Mucchetti (minoranza Pd), sul suo blog, ha associato il proprio intervento sul caso Mps – ieri sul Fatto Quotidiano – all’editoriale di Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera, sempre ieri sul medesimo tema. Alla vigilia del vertice di ieri sera al Tesoro sulla crisi bancaria (dal ministro Padoan si sono ritrovati il governatore Ignazio Visco e i vertici di Abi, Acri, UniCredit, Intesa Sanpaolo e Ubi) l’ex direttore e l’ex vicedirettore del Corriere hanno puntato entrambi il dito contro il piano di stabilizzazione del Monte messo a punto dal governo Renzi.



Ambedue gli articoli hanno sollevato dubbi e criticità sulla scelta – attribuita direttamente al premier – di appoggiare il piano al gigante statunitense JPMorganChase. Entrambi hanno storto il naso sulle intese “opache” raggiunte da Renzi con il Ceo di JPM, Jamie Dimon, e si sono chiesti quale ruolo abbia giocato Vittorio Grilli, ex direttore generale del Tesoro, ora in forze alla banca di Wall Street. Grilli era in carica in via XX settembre ai tempi dell’acquisizione di AntonVeneta, alla base del dissesto Mps: vigilava quindi sulla Fondazione Mps, le cui scelte contribuirono in modo decisivo al disastro di Siena.

Mucchetti si è mostrato particolarmente severo nel sottolineare il costo del piano Mps a beneficio di JPM (1,7 miliardi fra commissioni e interessi su aumento di capitale e prestito ponte) e più esplicito nel perorare il ripescaggio del progetto presentato in extremis, lo scorso luglio, da Corrado Passera, ex Ceo di Intesa Sanpaolo ed ex ministro del governo Monti. De Bortoli è stato più puntuto nel lamentare il ruolo “minore” cui è stata alla fine relegata Mediobanca a fianco di JPM. E ha deplorato le modalità di rimozione dei vertici di Mps (l’amministratore delegato Fabrizio Viola, licenziato dal Tesoro; e il presidente Massimo Tononi, dimissionario).

De Bortoli, al termine della sua lunga disamina, stigmatizza: “La memoria del Paese è corta. Quella di risparmiatori, azionisti e lavoratori delle tante banche coinvolte un po’ meno. Rinfrescarla fa bene a tutti”. È impossibile non concordare. Tuttavia nella memoria lunga del caso Mps rientrano anche fatti e situazioni che – forse per ragioni di spazio – non hanno trovato posto né presso l’editoriale di de Bortoli, e neppure nello scritto di Mucchetti.

Ci può stare mettere nel mirino Renzi per una gestone “a braccio” della grave crisi del Monte. Però è altrettanto vero che il crac del Monte – sistemico in Europa, secondo Eba e Bce – il suo governo se l’è ritrovato sul tavolo. Rocca Salimbeni non è certo crollata per colpa o dolo del Pd renziano. Responsabili di commistioni letali fra cattiva politica e cattiva gestione bancaria sono stati invece i vertici degli ex Ds che continuano a combattere Renzi (anche attraverso il senatore Mucchetti). E non è escluso che tanta resistenza a Renzi sia l’estremo tentativo di evitare una “soluzione finale” al Monte: forse alla ricerca di una estrema “soluzione concordata” che non cancelli il Monte e la sua senesità, poco importa se magari a spese del contribuente.

Il dissesto Mps, già conclamato, non è stato praticamente affrontato dal governo Monti (di cui Passera era ministro dello Sviluppo economico): salva la sottoscrizione di un limitato prestito obbligazionario e senza comunque imporre un radicale risanamento del gruppo. A quell’epoca (era il marzo 2012) fu nominato presidente di Mps Alessandro Profumo: l’ex dioscuro di Passera ai vertici dei campioni bancari milanesi (UniCredit e Intesa Sanpaolo). Profumo – banchiere fra i più rispettati in Europa a cavallo dell’esordio dell’euro – è sì riuscito a raccogliere 8 miliardi di capitali freschi in due aumenti di capitale: ma non a evitare che il collasso del Monte diventasse definitivo. E questo, oggettivamente, non rappresenta un buon precedente per ritentare una strada tale quale. 

Passera sarebbe in ogni caso il volto di prestigio e garanzia di un progetto costruito da Ubs. Bene: era proprio il colosso elvetico a consigliare i vertici di Mps in occasione dell’acquisto di AntonVeneta. Un mega-deal da 9,3 miliardi, lievitati ad affare concluso fino a 10,3. Che fine ha fatto il miliardo di “commissioni” maturato e saldato nel 2008? Motivo di più, certo, per vigilare sulle fee di JPM: ma non dimentichiamoci della risposta che manca ancora dopo 8 anni. Anche perché – a fianco del nome di Ubs – una “memoria lunga” sul caso Mps non può non richiamarne molti altri.

Nel 2007 lo stesso Tononi era sottosegretario al Tesoro del ministro Tomaso Padoa-Schioppa nel governo Prodi-2. Era stato chiamato a quel ruolo dalla Goldman Sachs Europe, nella quale aveva raggiunto il grado di partner managing director (lo stesso Prodi entrò poi assieme a Mario Monti nell’advisory board della banca americana, dominante in Italia dal Britannia in poi). Executive vicepresident della Goldman Europe era stato anche Mario Draghi: predecessore di Grilli alla direzione generale del Tesoro e in quel 2007 governatore della Banca d’Italia prima di essere chiamato al ruolo attuale di presidente della Bce.

La Banca d’Italia è sempre stata considerata parte lesa del reato di “ostacolo alla vigilanza” da parte dei vertici Mps nei procedimenti giudiziari riguardanti il finanziamento dell’operazione AntonVeneta via derivati. Ma non risulta abbia in alcun modo eccepito alla decisione di acquisto, autorizzandola rapidamente e senza condizioni.

Non hanno torto de Bortoli e Mucchetti a dar voce – in tempo reale – al malumore corrente della City milanese sulle scelte e sullo stile di Renzi nell’affrontare la crisi Mps (e forse anche le altre: le quattro good banks apparentemente invendibili oppure le due Popolari del Nordest impiombate in Atlante). Però a Siena non esistono buoni e cattivi, e nessuno è innocente. Probabilmente non lo è neppure Renzi: ma è ad Arezzo che il premier presta semmai il suo fianco bancario. A Siena invece sta né più né meno che tamponando un guaio gigantesco lasciato da altri leader del centrosinistra, da altre autorità monetarie, da altre banche d’affari americane. Con gli stessi metodi.