Che una nuova Europa stia avanzando all’orizzonte per forza propria senza agonismi dichiarati, ma antagonismi evidenti, è forse la prova più preclara che il disordine mondiale sta giungendo a un punto di svolta. Finita la guerra civile europea è iniziata quella economica tra le nazioni europee che dovevano essere morte e che morte non sono. La spia rivelatrice è stata dapprima la questione dei migranti. Le persone circolano solo tra gli stati europei quando esse sono europee, ma non tra l’Europa e il resto del mondo e così facendo e non potendo circoscrivere i confini balcanici italiani che sono corridoi e immensi laghi che si attraversano, le persone non europee circondano e penetrano l’Europa antagonisticamente. E l’Europa ora si erge come elemento di conflitto e discordia tra chi è obbligato a ricevere, chi non vuole affatto ricevere o solo teme di ricevere.



L’unità europea si disvela come unità contro e non come unità per, e questo essere per non è autoreferenziale e in sé riflesso. La Brexit nasce proprio da questo inflettersi della coscienza nazionale che ritorna potente alla fine della guerra civile europea con il crollo dell’Urss e giunge all’implosione con l’aprirsi post colonialistico della questione africana nord-orientale, determinata dalla distruzione degli stati mesopotamici e tribali rivieraschi e mediterranei.



I riflessi nell’heartland sono evidenti perché il wahhabismo saudita altro non è che il ponte con quello, tutto pakistano come origine, delle scuole – sempre wahhabite – hanafita e hanbalita, che determinarono la separazione islamica poi pakistana nel secondo dopoguerra dal nascente stato indiano post-coloniale. Di qui la messa in movimento della faglia ottomana che si muove per ampliare la propria influenza e deve farlo ostacolando il dilagare arabo musulmano che potrebbe minacciarne le mire. E di qui, ancora, l’inevitabile movimento verso i mari caldi della Russia che da queste faglie in movimento teme di veder accrescere il suo strutturale isolamento geopolitico che è paradossalmente aggravato dalla sua possanza euro-asiatica.



In questo contesto di movimento nel fronte sud europeo, il Regno Unito si rifiuta di interpretare come merci le persone: il loro movimento non è di transazione, ma di costruzione di simboli culturali e di paure antropologiche. Ha sì necessariamente dei costi di transazione ma non è assimilabile a ciò di cui si discute nei trattati di libero scambio. Ma le conseguenze della Brexit sono assai più rilevanti sul piano geostrategico che su quello immediatamente economico, se congiungiamo i processi di distruzione degli stati del fronte mediterraneo e della Mesopotamia con il distacco del Regno Unito dall’Europa che rimane.

È centrale la contraddizione destinata ad aprirsi con gli Usa, che si ritrovano oggi nel cul de sac in cui si trovarono con gli inglesi dopo l’attacco congiunto di questi ultimi con i francesi e gli israeliani all’Egitto di Nasser per contrastare la nazionalizzazione del canale di Suez. Gli Usa cacciarono i russi comunisti dal Medio Oriente e dalla Turchia in modo che parve definitivo, ma persero la partita europea che avevano giocato dopo la fine della Seconda guerra mondiale: quella di dar vita a un’Europa che fosse operante come istituzione anche con il Regno Unito. Ciò si riteneva fosse indispensabile dinanzi al pericolo comunista e alla volontà francese di continuare a commerciare direttamente con i sovietici, così come continuarono a fare gli italiani. 

Le due potenze nucleari europee non parteciparono una al Mec (con la creazione dell’Efta) e l’altra al rafforzamento della Nato con la decisione di De Gaulle del 1966 (dieci anni dopo Suez!) di non partecipare più come Francia al comando integrato dell’Alleanza, proprio nel momento più critico del confronto con l’Urss. Dopo avvenne lo scacco nordamericano nella guerra dell’Iraq del 2003: né Germania, né Francia parteciparono per timore di perdere ogni influenza in Medio Oriente, Pareva che il fronte Usa-Uk, con la volontà distruttrice di Blair, dovesse ricomporsi e in tal modo formare un’Europa in cui la potenza tedesca potesse essere bilanciata dal ruolo inglese storicamente affermatosi come unica potenza in grado di frenare l’espansionismo tedesco.

La Brexit pone in discussione proprio questa Europa e ciò getta gli Usa in una difficile situazione geo-strategica nella delineazione della strategia nuova che si va delineando di contenere l’esportazione solitaria di sicurezza e di farla condividere, scacchiere per scacchiere mondiale, ai protagonisti di secondo livello del confronto globale e di primo livello locale e regionale. In Europa gli Usa debbono ripiegare ormai solo sull’Italia. La Francia è sempre riluttante a seguire gli Usa e non dismette ambizioni imperiali e la Germania non abbandona l’ordo-liberismo che spinge nella deflazione secolare tutta l’Europa e mette in crisi la ripresa mondiale che si allontana sempre più contestualmente all’importante crisi cinese.

Nonostante la crisi, la Brexit consegna il Regno Unito all’alleanza strategica di lungo periodo con la Cina sancita dall’impegno nucleare in forma energetica e dal profluvio di investimenti cinesi nel Regno Unito che non sono in contraddizione, per la Cina, con l’impegno con la Francia e la Germania sul fronte delle infrastrutture della via della seta, a cui, del resto, l’Uk fornisce il carburante finanziario con la creazione a Londra (senza gli Usa!) della Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture, recentemente creata con l’assenza del solo Giappone.

L’Europa che sta delineandosi è ben diversa da quella immaginata nel secondo dopoguerra dall’intelligence nordamericana e assomiglia piuttosto a una tremolante alleanza che mostra il conto della nuova guerra non solo fredda con la Russia, che nonostante la caduta dell’Urss si veste di nuovo con Putin dell’espansionismo grande russo da sindrome da isolamento e minaccia i baltici, i polacchi e gli scandinavi. La Storia ritorna implacabile.

In questo contesto impedire l’incendio della prateria italiana è essenziale per gli Usa. Se la crisi italiana dalla desertificazione industriale alla crisi sistemica bancaria esplodesse – come sta per esplodere – tutto il retroterra delle guerre mesopotamiche in cui i russi ora giocano un ruolo prima impensabile, con un contraltare degli Usa veramente drammaticamente ingenuo nell’agone diplomatico e militare, si sgretolerà con conseguenze incalcolabili. Tutto sarà difficile perché i russi difendono a spada tratta l’accesso al Mediterraneo dalla Crimea e dalla Siria. Per questo spegnere l’incendio italiano è questione di vita o di morte per gli Usa.

Ma non è un caso che proprio sul destino del governo Renzi gli inglesi segnino un punto di distacco con il disimpegno della loro ambasciata ora affidata non più un uomo che aveva lavorato sui fronti caldi della guerra sotterranea, ma a una distinta signora tutta diplomazia di carriera e riservatezza. Gli Usa invece non solo invitano a cena il Primo ministro italiano, ma lo sostengono con Israele in ogni modo e sono sospinti a sostenere le banche a costo di rompere oliati rapporti e la cristalleria nei salotti della finanza. Gli uomini e le donne di JP Morgan ritornano, come negli anni Venti e Trenta del Novecento, a essere i punti di riferimento per la finanza internazionale e italiana e per il circolo governativo- Al loro fianco non vi è più Beneduce e i seguaci di Bonaldo Stringher, ma Mediobanca che non possiede più nulla del ruolo di mediazione e di condizionamento di un tempo, ma fa i suoi affari in maniera ancora sufficiente per impedire uno sviluppo della finanza italiana degno di reggere alla concorrenza internazionale.

La divisione che si è creata sul risanamento di Montepaschi, con la sola banca italiana di grandi dimensioni ben salda sulle sue gambe perché territoriale e commerciale, è sempre più evidente e non può che accentuare il distacco del governo da una parte del mondo industriale piccolo e medio che è in cerca disperatamente di un nuovo equilibrio di stabilizzazione del rapporto tra economia e politica che consenta la sopravvivenza: e il governo è sordo a questo richiamo.

Disturbare la potenza cinese in Italia nelle reti strategiche e l’invadenza tedesco-francese nelle banche e nell’industria è d’obbligo per gli Usa e di questa trappola vive il governo Renzi che pare non avere all’orizzonte altri sostituti. Di qui la vittoria del disegno che spinge a favorirne le sorti.

Tuttavia la sicurezza nazionale italiana in un’Europa che non riesce a esprimere una sicurezza sovranazionale comune non è così solida come vorrebbe l’impegno nell’agone della lotta in Mesopotamia e in Nord Africa per arginare il terrorismo, l’invadenza russa e la crisi economica europea di marca teutonica e francese. Molti ostacoli si frappongono a questo disegno delineato, peraltro in forma sfocata, dagli Usa.

Un disegno che non riesce a diventare disegno nazionale, ossia disegno assunto come tale da un fronte politico e civile che deve essere ben più ampio di quello delle forze di governo. Ma è esattamente questo che la devertebrazione dello Stato italiano oggi rende impossibile.