Il mondo rallenta, a partire dagli Stati Uniti che, complice l’incertezza elettorale, hanno ridotto il tasso di crescita del Pil dal 2,2% all’1,6%, lo stesso dell’Unione europea, frenata dall’Italia che si limiterà a un risicato 0,8%. Le note più lievi arrivano dai Paesi emergenti, in grado di salire al 4,2% (contro il 4,1% di sei mesi fa). Grazie al loro contributo la crescita dell’economia nel 2016 arriverà al 3,1%, circa il doppio del rialzo dell’Occidente.



Dall’assemblea del Fondo monetario internazionale emerge un pianeta sempre meno condizionato dall’emisfero settentrionale. Da pochi giorni lo yuan partecipa a pieno titolo al paniere dei diritti speciali di prelievo, al fianco di dollaro, euro e sterlina. La banca degli investimenti promossa da Pechino continua a riscuotere adesioni (l’ultima è quella del Canada) nonostante l’opposizione di Washington e Tokyo. Certo, la Cina rallenta nel tentativo di passare senza troppi traumi da una struttura votata all’industria a un’economia basata sui servizi. In cambio accelera l’India, +7,1%, affiancata dall’Indonesia. New Delhi, sotto la spinta di Modi, si candida a nuova locomotiva per il sud del mondo. “Chiedetevi – ha scritto in un messaggio rivolto ai pakistani – perché noi indiani vendiamo software in tutto il mondo mentre voi esportate solo terroristi”.



Ma il quadro è un po’ ovunque in costante evoluzione. L’Argentina ha archiviato il peronismo e si ripropone come una meta ideale per gli investimenti. Il Brasile, dopo la cacciata di Dilma Roussef, torna ad accelerare dopo una crisi terribile. Rialza la testa anche la Russia, grazie alla tenuta dei prezzi del petrolio e ai successi politici, in assenza di una leadership americana. Perfino nella penisola arabica si fa strada il vento del cambiamento: l’offerta più robusta e più attesa del 2017 sarà il collocamento delle azioni di Aramco, la cassaforte del petrolio saudita che sarà parzialmente privatizzata. Per non parlare dell’Iran, che si riapre al mondo con una popolazione per due terzi sotto i trent’anni e immense potenzialità, anche grazie agli sterminati giacimenti di gas e petrolio.



Insomma, al di là dell’orizzonte ingessato dell’Unione europea e delle incognite del voto Usa, il mondo va avanti. Come troppo spesso tendiamo a dimenticarci in Occidente, limitando la nostra finestra sul pianeta ai problemi posti dall’immigrazione. Ma il pianeta è ben più ricco di occasioni e di esperienze che richiedono anche la nostra partecipazione, ma offrono opportunità. Esemplare in questa cornice il caso dell’Africa, a noi nota solo per i barconi in arrivo a Lampedusa.

L’emergenza c’è, inutile negarlo. Ma è lo specchio di una società in movimento, che merita di essere aiutata nella fase del decollo. Un’analisi più profonda indica che molte cose possono non essere così negative come sembrano, per due ragioni fondamentali. La prima: sebbene la crescita media sia calata, alcune economie africane negli anni recenti sono cresciute favorevolmente. In effetti, il Pil aggregato è stato trascinato in basso dal 2010 dalla crescita barcollante dei paesi esportatori di petrolio e dalle crisi connesse con la sicurezza nel Sahel e nel Nord Africa; ma nel resto dell’Africa la crescita del Pil ha accelerato, dal 4,1% del 2000-2010 al 4,4% del 2010-2015.

La seconda: l’Africa sta subendo una profonda trasformazione di lungo periodo, caratterizzata da una rapida digitalizzazione, dall’urbanizzazione e dalla crescita della popolazione in età lavorativa, che nel 2034 supererà la forza lavoro della Cina e dell’India. Questa tendenza demografica può sbloccare la crescita economica tramite un progresso della diversificazione economica, e sostenere l’industrializzazione.

Di fatto, i paesi oggi ad alta crescita – che comprendono la Costa d’Avorio, l’Etiopia, il Kenya e la Tanzania – hanno già realizzato un progresso sostanziale nel ridurre la loro dipendenza dall’esportazione di materie prime, a favore del commercio, dell’investimento e dei consumi interni. E molti paesi a più bassa crescita potrebbero indirizzarsi su un sentiero simile. Una nuova ricerca da parte del McKinsey Global Institute (Mgi) mostra che la spesa da parte dei consumatori e delle imprese africane realizza già 4.000 miliardi di dollari. Per il 2015 la spesa privata potrebbe raggiungere i 5.600 miliardi di dollari – 2.100 miliardi da parte delle famiglie e 3.500 da parte delle imprese.

Insomma, il terreno è fertile. In questa cornice è importante che il Continente non perda i suoi talenti più promettenti, un rischio denunciato dal Fondo monetario internazionale: la Gran Bretagna, così proterva nella promessa di chiudere le frontiere, assorbe ogni anno migliaia di medici e infermieri in arrivo dal Continente nero. Al contrario, merita sottolineare la sfida della sempre più vituperata Commissione Ue. Jean-Claude Juncker ha annunciato lo stanziamento di 3,35 miliardi di euro di risorse provenienti dal bilancio Ue e dal Fondo europeo di sviluppo nella speranza di arrivare a mobilitare fino a 44 miliardi di euro di investimenti grazie a un sistema di garanzie innovative a copertura degli investimenti privati. La cifra, se gli Stati faranno la loro parte, potrebbe raddoppiare a 88 miliardi: a ben cercare le buone notizie non mancano. Per fortuna.