Chiudere un terzo degli sportelli bancari in Europa. Cioè, in Italia, 10 mila sportelli su 28 mila. Chiuderli per non fallire. È la previsione, più che la ricetta – cruda, anzi crudele, ma purtroppo non campata in aria – di uno studio del Fondo monetario internazionale, non di un’Associazione degli integralisti anti-usura. Fa riecheggiare sinistramente la stangata del premier italiano Matteo Renzi a Cernobbio – certo in quell’occasione non solo sincero, ma impolitico al massimo – quando ai primi di settembre disse che la metà degli attuali dipendenti bancari italiani sono di troppo, circa 160 mila persone.



Ma cos’è successo? Cos’ha trasformato una categoria professionale da secoli sinonimo di solidità e benessere in una razza in via d’estinzione? La risposta ultima è semplice, ed è in una parola-chiave che ha già fatto il suo effetto sui lavoratori del mondo delle produzioni musicali ed è in corso di applicazione al mondo del giornalismo tradizionale: internet. Insieme a internet ci sono molte altre cause dietro questa crisi inattesa, precedenti e anche più incisive, che vanno ricordate, ma la forza di internet è quella oggi più schiacciante.



L’impiego permeante delle tecnologie digitali diffuse dalla Rete nelle tasche di tutti gli umani titolari di un conto corrente ha disintermediato le banche, parola complicata per spiegare una cosa semplice: prima del web, per fare un’operazione bancaria si doveva andare in banca; dopo il web, per fare la stessa operazione basta accendere il telefonino, si fa prima, costa nulla. Le banche e i banchieri lo sanno? Oggi sì: ma incredibilmente alcune banche importanti, ancora in questi giorni, si ostinano a presentare come se fossero grandi innovazioni il potenziamento elementare di siti web e sportelli on-line in ritardo di dieci anni. Come mai, sono ignoranti, o impazziti, questi dirigenti di banca? Nossignore. Sono – o sono stati – ciecamente arroganti.



Meglio spiegarsi. Le banche non sono mai state aziende efficienti. È efficiente un’azienda che ottiene il massimo risultato col minimo costo. Cioè un’azienda che sa che per guadagnare bene non può contare sulla crescita indefinita e arbitraria dei ricavi, ma può solo tenere i costi sotto controllo. In questo senso Ryanair è efficiente: fa furbate ignobili costringendo le Regioni italiane (cioè: noi contribuenti, anche di altre regioni) a pagarla per mantenere i suoi voli nei loro scali, è vero. Ma non c’è un euro che venga sprecato nella gestione di quei voli. Il gruppo Cairo è efficiente e la Rcs no (o non ancora) perché nel primo si compra a 14 mila euro un servizio che nel secondo viene pagato 12 volte di più…

Ebbene, per decenni le banche sapevano invece di poter alzare i loro ricavi a piacimento, senza alcun controllo da parte del mercato, né da parte dei regolatori: e di conseguenza se ne fregavano di tenere sotto controllo i costi, anzi spendevano e spandevano. Non le contrastava il mercato – cioè di noi consumatori -, perché non avevamo alternative che ci permettessero di comprare a miglior prezzo da altri fornitori quei servizi, agendo infatti quei fornitori in un regime di “cartello” oligopolistico, in cui cioè tutti praticano gli stessi prezzi per guadagnare tutti molto e nessuno si fa concorrenza. E non le contrastavano i regolatori, cioè da noi la Banca d’Italia, la quale pur di prevenire il rischio di un fallimento di una banca (ed effettivamente ce ne sono stati pochissimi, in Italia) le lasciava ingrassare a dismisura.

Ebbene, quest’inefficienza storica delle banche da qualche anno, si è rivelata il male oscuro che è non per Internet, ma per la crisi finanziaria del 2008-2009. Quella crisi è stata scatenata non dalle inefficienze appena ricordate, ma dalla bulimia con cui le stesse banche – a onor del vero non quelle italiane, ma quelle angloamericane, che però purtroppo intonano alle loro disfunzioni tutto il mercato globale – hanno voluto guadagnare giocando spregiudicatamente sui mercati finanziari con i titoli tossici, i famosi derivati e prestavano indiscriminatamente i soldi (le banche straniere anche peggio di quelle italiane).

Tutto ciò ha costretto le autorità regolatorie internazionali a imporre requisiti patrimoniali molto gravosi alle banche per impedire loro di continuare su questa china. In sostanza gli ha detto: se volete maneggiare (cioè fare impieghi, prestandoli ai clienti o investendoli in titoli, quindi comunque mettendoli a rischio) 100 dollari presi in prestito dai vostri stessi clienti (la raccolta), dovete accantonarne al sicuro almeno 20 (e questi accantonamenti obbligatori aumenteranno ancora, nei prossimi anni) per poterli utilizzare nel caso perdiate quelli impiegati, per rimborsare i clienti che ve li avevano prestati. E così le banche hanno dovuto congelare grandi fette di utili. Ma quel che è peggio è che si sono inaridite le due fonti principali di ricavi, quelle su cui le banche contavano da sempre per poter spendere e spandere.

La prima di queste due fonti è lo “spread” tra i tassi d’interesse su raccolta e impieghi, cioè la differenza tra gli interessi che le banche pagano ai clienti per poter usare i loro soldi e quelli che pretendono dai clienti ai quali prestano quei soldi. Poiché, dopo la crisi finanziaria, i tassi imposti dalle banche centrali sono crollati, e in tutto il mondo, questa differenza percentuale si è ridotta a poca cosa e genera pochissimo utile. L’altra fonte sbriciolata inizia ad avere a che fare con Internet e sono i margini di commissione (leggi: guadagno) applicati dalle banche sui servizi bancari tipici, dalla tenuta di un conto corrente al prelievo al bancomat o alla spedizione di un bonifico, insomma il prezzo che uno deve pagare alla banca per poter usare i suoi soldi.

Questi margini sono caduti a causa di quel po’ di concorrenza che nonostante l’arcigna difesa delle banche centrali il mercato ha introdotto negli ultimi dieci anni, paradossalmente proprio per iniziativa delle stesse banche che oggi ne pagano il costo. Cioè, queste stesse grandi banche sono state proprio loro ad aprire piccole banche “low-cost” concorrenti, che per prime hanno iniziato a usare le nuove tecnologie offrendo servizi a prezzi bassi, segandosi da sole il ramo del privilegio commerciale sul quale stavano comodamente sedute. Un po’ come i grandi editori della carta stampata che quindici anni fa hanno iniziato a regalare su Internet gli stessi contenuti che contemporaneamente vendevano sulla carta, meravigliandosi poi che quella carta non la compra più nessuno. Sono le follie del mercato, che ogni tanto intervengono a far saltare gli schemi elementari delle oligarchie economiche.

Su questo scenario disastroso, che per esempio fa sì che negli ultimi sette o otto anni l’insieme delle banche italiane non abbia più guadagnato una lira, si è aggiunta oggi l’inondazione delle tecnologie digitali che – non più come eccezioni, ma come nota dominante – rendono inutili effettivamente la metà degli organici.

Ora, tutti i banchieri perbene si stanno freneticamente attivando per non dover licenziare tanta gente, sia per non fare “macelleria sociale”, sia perché, semplicemente, non hanno in cassa i soldi che servirebbero per licenziarli legalmente. Infatti, le banche non possono usare la cassa integrazione o altri strumenti di welfare tipici dell’industria, ma hanno un fondo esuberi autofinanziato che oggi è praticamente vuoto. E che si affianca a un altro fondo, pure autofinanziato anche se istituito dalla legge, che è il fondo di garanzia dei depositi, che dovrebbe coprire le perdite dei soldi dei clienti fino ai 100 mila euro per cliente delle banche che falliscono: anch’esso vuoto, e da rifinanziare a carico di quelle stesse banche in crisi perché non fanno più utili, o non più a sufficienza.

Quindi alcune banche si stanno attivando per scongiurare il disastro. Le migliori hanno iniziato volenterosamente a riconvertire un po’ di personale ad altre attività non rese inutili da Internet: per esempio, vendere case o fondi d’investimento. Ma queste riconversioni riescono a riciclare soltanto piccole parti degli esuberi. È sempre la stessa storia, quella dell’adagio per cui “i cavalli resi inutili dai tram non poterono essere impiegati nelle fabbriche che producono tram”. Riconvertire professionalità è un processo lungo e difficile, che riesce solo a volte.

E dunque? Dunque solo due contromisure potrebbero evitare o attutire il disastro, la prima probabile ma parziale e la seconda improbabile ma più incisiva. La prima è che il prima o poi inevitabile rialzo del ciclo dei tassi intervenga più presto di quanto stimano gli economisti, in uno o massimo due anni, ridando spessore al margine d’interesse e restituendo su quel fronte un po’ di utile alle banche: ma nessuno sa davvero quando il fenomeno inizierà. La seconda è che gli Stati – finora concordi solo nel varare o accettare da parte degli organismi sovranazionali imperanti norme molto pesanti per le banche – concordino al contrario un programma di interventi preventivi e curativi che accompagnino il ciclo di ristrutturazione che le banche devono comunque affrontare, evitando che una dieta dimagrante indispensabile diventi una morte per inedia.

Ma chi nel mondo ha testa per ragionare su questi scenari? Chi, e dove, si sta chiedendo come impedire che la rivoluzione digitale nel suo insieme distrugga nel giro dei prossimi 5-10 anni la metà della manodopera industriale mondiale senza dare a essa alcuna vera alternativa? Dovrebbe essere la principale sollecitudine dell’Onu, o del Fondo monetario internazionale, e invece no: del problema dei problemi si occupa occasionalmente solo qualche economista eretico e senza potere.