Fra poche settimane sarà un anno dall’inizio dell’emergenza bancaria italiana. Il 22 novembre 2015 un Consiglio dei ministri di dieci minuti decretò la risoluzione di Banca Etruria e di altre tre banche locali: negli annali italiani è stato come il 15 settembre del 2008 a Wall Street. Da allora si sono succedute solo cattive notizie: la mancata messa in sicurezza di Popolare di Vicenza e Veneto Banca – salvate anch’esse in fretta e furia attraverso una “colletta” presso altre banche – e poi soprattutto la lenta agonia del Montepaschi. Sullo sfondo gli scricchiolii di UniCredit.



Nell’ottobre 2016 non c’è una sola crisi risolta: semmai gli allarmi crescono ogni giorno. Di ieri l’annuncio di un nuovo, breve termine concesso dall’Ue per la rivendita delle 4 good banks. Per esse, secondo ultime indiscrezioni molto wishful, le autorità italiane vorrebbero mettere in campo lo stesso Atlante (il salvatore delle Popolari del Nordest) assieme ad Apollo: il fondo accusato in primavera di muoversi come un “avvoltoio” e per questo respinto in primavera dal possibile riassetto di Carige. Atlante e Apollo possibili “compagni di letto”, ora, è già una prospettiva emblematica di una crisi che manda in pezzi nell’arco di mesi le premesse e gli sviluppi di ogni tentativo strategico.



“Manca una politica creditizia, il mercato da solo non basta”, ha bruscamente sintetizzato ieri Lorenzo Bini Smaghi: osservatore certamente qualificato (è stato membro dell’esecutivo Bce), ma non del tutto indipendente (è presidente del consiglio di sorveglianza del gigante francese Société Generale; presidente della Banca del Chianti – dissidente rispetto alla riforma del Credito cooperativo – e non da ultimo presidente della holding del Fonspa, l’istituto che ha rilevato 300 milioni di crediti alla Banca dell’Etruria cinque giorni prima del dissesto). Andando al fondo dell’articolo di “LBS” – eterno candidato a sostituire Piercarlo Padoan al Mef – si scopre la perorazione di un maxi-scivolo previdenziale per 90mila bancari di troppo. Forse l’economista fiorentino – molto vicino al premier Matteo Renzi – non intendeva puntare il dito contro la reale “non-politica creditizia” che ha caratterizzato l’azione del governo nell’ultimo anno. Fino all’ennesimo paradosso dello scontro fra Atlante e JPMorganChase sullo smobilizzo delle sofferenze di Mps.



Il primo “cavaliere bianco” è stato appositamente creato dal governo in aprile – ai limiti del diktat su banche, assicurazioni e fondazioni – per funzionare da “lavanderia” dei miliardi di non-performing-loans che gravano sulle banche italiane. Nei fatti ha rilevato il controllo delle due Popolari venete, vi ha quasi esaurito le sue risorse e non si è ancora sperimentato sull’acquisto di Npl a prezzi “corretti”. Questi ultimi, negli intenti, avrebbero dovuto essere valori non troppo punitivi per le banche che si liberavano dei bad loans: prezzi più alti di quelli offerti dai fondi cosiddetti avvoltoi. Peccato che già in primavera i prezzi “avvoltoi” offerti da Apollo per gli Npl Carige e da Fortress per Popolare di Vicenza (con impegni a ricapitalizzare) non fossero diversi da quelli che il Fondo italiano di risoluzione – sotto la regia di governo e Bankitalia – aveva fissato per scindere gli Npl dalle quattro banche fatte fallire.

Ora, in ogni caso, Atlante dovrebbe esordire nel mercato degli Npl a Siena, dove opera ormai in veste di protagonista JPMorganChase: chiamata sua volta da Palazzo Chigi. Eppure questi due attori – entrambi “renziani” – avrebbero preso a non capirsi. Il fondo gestito da Alessandro Penati vorrebbe/dovrebbe comprare gli Npl a un prezzo “equo”, anzi “alto”: ciò permetterebbe a Mps di limitare le perdite e quindi massimizzare l’effetto della ricapitalizzazione del Monte (oppure, secondo alcuni, ridimensionarla per renderla compatibile con il “piano Passera”). Ma JPM guarda agli Npl di Mps da prospettiva opposta: deve apire una maxi-linea di credito ponte, di cui gli Npl sarebbero inzialmente garanzia, naturalmente valutata “poco” (comunque in linea con le valutazioni di mercato).

Che sia per anche per questo che Ferruccio De Bortoli e Massimo Mucchetti, a inizio settimana, hanno messo nel mirino il ruolo di JPMorgan a Siena, esponendosi alle bordate di ritorno del “cerchio magico” renziano? Sull’operazione Atlante, in primavera, hanno messo volto e una montagna di euro personaggi come il presidente dell’Acri, Giuseppe Guzzetti o l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo Carlo Messina. Sul fronte bancario erano più che attivi i vertici della Cassa depositi e prestiti (Tesoro-Fondazioni) preseduta da Claudio Costamagna (ex Goldman Sachs come il presidente della Bce, Mario Draghi e il presidente dimissionario di Mps, Massimo Tononi). Ora a Siena e dintorni sembra invece spadroneggiare solo JPMorganChase, che avrebbe marginalizzato Mediobanca, che Palazzo Chigi ha tenuto sistematicamente fuori da ogni big deal nazionale.

Sotto il cielo bancario, la politica creditizia sembra effettivamente assente, mentre il disordine appare proporzionalmente grande.