«Sebbene le elezioni americane siano andate diversamente da quanto molti avrebbero desiderato, dobbiamo accettare l’elezione di Donald Trump. Ora, nelle relazioni con gli Usa, nulla è più facile, molto diventa più difficile». A dichiarare quanto segue è stato, intervistato dall’emittente N24, il ministro degli Esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier. Ora, ovviamente le cancellerie europee non sono state travolte da un’ondata di entusiasmo per l’elezione del tycoon newyorchese a presidente degli Usa, ma quasi tutti hanno sposato la linea della diplomazia, congratulandosi per il risultato e rinnovando rapporti e amicizia con gli Stati Uniti. Solo la Germania, attraverso il responsabile della politica estera, ha esternato il proprio scoramento in maniera molto netta, plateale, arrivando addirittura a premettere e anticipare che le relazioni con Washington sono già da oggi deteriorate e in salita. Come mai una scelta simile da parte del governo tedesco, visto che immagino Steinmeier si sia consultato con la Merkel sulla linea da tenere? 



In effetti, Obama aveva rifilato un paio di legnate mica da ridere alla Germania in campo economico, prima con la multa a Volkswagen per le emissioni e poi con quella a Deutsche Bank per i subprime. Ma quelli erano segnali politici, erano avvertimenti affinché non si cambiasse rotta rispetto all’agenda principale: la quale aveva due priorità, la guerra contro Putin e il Ttip. Nel primo caso, Berlino è stata il cane da guardia, sia per il suo attivismo in seno alla Nato per quanto riguarda le mobilitazioni nel Baltico, sia per la durezza con cui ha imposto le sanzioni contro la Russia, ottenendone il rinnovo e minacciando l’inasprimento per l’impegno di Mosca in Siria. Direte voi, sul Ttip, però, la battaglia è stata persa e sono state proprio Berlino e Parigi a mettere la pietra tombale sulla vicenda. Vero, peccato che se la scorsa settimana Jean-Claude Juncker ha imposto all’Ue l’entrata in vigore dell’accordo commerciale con il Canada, il Ceta, è perché Berlino aveva garantito supporto massimo all’operazione, fatta in quattro e quattr’otto senza troppo clamore mediatico. E, come vi ho già spiegato, il Ceta è il cavallo di Troia del Ttip, visto che l’80% delle aziende Usa ha una filiale canadese che può sfruttare gli accordi e le facilitazioni commerciali con l’Ue. 



L’asse Obama-Merkel, inoltre, è stato da almeno tre anni abbondanti il meno visibile, ma il più forte in assoluto: chi ha attaccato maggiormente la Russia per il suo interventismo in Siria, in ambito Ue? Dal canto suo, l’America fino a oggi ha tenuto in vita Deutsche Bank: se davvero il mercato fosse tale, pensate che da Oltreoceano nessuno avrebbe sfondato la porta del gigante tedesco per vedere il bluff sul rischio di controparte legato al book dei derivati? Invece, per ora i fondi Usa e la grande speculazione statunitense hanno solo bussato a quella porta, quasi a voler avvertire della loro presenza. 



Inoltre, prima che la Bce scoperchiasse il vaso di Pandora del Qe, chi pensate che abbia mantenuto in vita Deutsche Bank e le sue necessità di finanziamento in dollari se non le swap lines della Fed? Era un patto: Berlino si comportava da cane da guardia degli interessi economici e geopolitici Usa in Europa e gli Usa garantivano alla Germania il mantenimento dello status di Paese egemone all’interno dell’Ue. 

Si è forse rotto l’equilibrio perfetto? Per questo Steinmeier ha tradito il suo vincolo di mandato e ha parlato senza alcun ricorso alla diplomazia? Io sono certo di sì. E, adesso, attenzione ai colpi di coda, perché la Germania venderà carissima la pelle prima di abdicare. L’altro giorno sul Corriere della Sera, Martin Wolf – intervistato dal bravo Federico Fubini – parlava molto chiaro: o la Germania farà aumentare la spesa interna o Italia e Francia si preparino a una stagnazione perenne. Pensate che Berlino intenda rinunciare al suo surplus, proprio ora che a colpa dell’italiano Mario Draghi e dei suoi tassi di deposito negativi, le banche tedesche perdono profittabilità? 

Ora che ha perso il suo alleato maggiore, la Germania dovrà imporre le sue regole giocando ancora una volta sporca sull’ambito interno europeo, esattamente come fece nel 2011, scaricando miliardi di debito italiano e mandando il nostro spread sull’ottovolante per spalancare la porta alla stagione dei tecnici che ha ucciso del tutto ogni possibile ripresa economica del Bel Paese. 

E ieri, in una giornata già turbolenta sui mercati per lo shock arrivato dagli Usa, ecco che con timing perfetto la Commissione europea, come ampiamente previsto per amor del vero, ha tagliato ufficialmente le stime sul Pil italiano. Le previsioni di autunno diffuse ieri indicano per quest’anno una crescita in calo dall’1,1% delle previsioni di primavera di maggio allo 0,7%, mentre per il 2017 si passa dall’1,3% allo 0,9%: solo nel 2018 il Pil italiano è visto in crescita dell’1%. «La ripresa economica dell’Italia è destinata proseguire a un ritmo modesto – ha previsto la Commissione Ue -, mentre le persistenti ristrettezze sulle condizioni finanziarie e l’incertezza frenano un recupero più forte». Inoltre, per i funzionari di Bruxelles, «i rischi al ribasso possono derivare dall’incertezza politica legata al referendum del 4 dicembre sulle riforme costituzionali». Peraltro, si profila una decelerazione della crescita dell’occupazione con il venir meno degli incentivi alle assunzioni: il tasso di disoccupazione italiano, infatti, resterà secondo l’Ue al di sopra dell’11% nei prossimi due anni. 

Il tutto, mentre prosegue il dialogo tra Ue e governo italiano sulla legge di bilancio: «La flessibilità è stata già concessa nel 2016 e dobbiamo lavorare per tenerne conto in maniera giusta e proporzionate anche sulle spese che si possono e si devono sostenere per accogliere rifugiati per conto di tutta l’Europa, o per prevenire e curare le catastrofi come sono i terremoti», ha ricordato sempre ieri il commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici. Insomma, Matteo Renzi ora è nell’angolo: dopo il duro confronto dell’altro giorno con Jean-Claude Juncker, capo di quella Commissione che ieri ha di fatto bocciato i nostri conti, ora si apre uno scenario nuovo. 

Digerita la vittoria di Trump, i mercati si focalizzeranno infatti su un solo evento di rischio politico, il referendum del 4 dicembre. E sarà un fuoco di fila non soltanto sullo spread, il quale beneficia comunque del backstop della Bce, ma anche dei titoli azionari più sensibili, quelli che potremmo definire istituzionali. Non è un caso che ieri Piazza Affari sia stata quella che ha patito maggiormente in apertura di contrattazioni e non per Trump, ma per Mps che è nuovamente crollata: picchiare su Monte dei Paschi equivale a picchiare politicamente su palazzo Chigi, mettetevelo in testa. Ma anche Banco Popolare, Bpm e Ubi hanno subito pesanti cali, sintomo che il comparto bancario resta il tallone d’Achille, soprattutto ora che parte la stagione delle fusioni e delle ricapitalizzazioni. 

Per Martin Gilbert, ceo di Aberdeen AM, «nelle elezioni e referendum imminenti che si svolgeranno in giro per l’Europa è probabile che vedremo altri voti contro il sistema. Quindi, il rischio politico resterà una componente stabile del panorama degli investimenti per il prossimo futuro». Ma chi, a vostro modo di vedere, ha interesse a destabilizzare finanziariamente la piccola Austria che sempre il 4 dicembre va al voto per il ballottaggio delle presidenziali? Se serve creare il panico per arrivare a soluzioni emergenziali che la gente accetti supinamente in quanto tali, occorre prendere l’elefante nella stanza. E con un governo così debole per l’inconsistenza delle ricette economiche, i conti raffazzonati e le diatribe interne a Pd e maggioranza, tutto appare ancora più semplice. 

La Germania ha tutto da guadagnare, ora che non ha più la sponda di Obama: rafforzare il ruolo di bene rifugio del Bund, continuare nella sua politica di surplus, aumentare la pressione su Mario Draghi – il quale, giova ricordarlo, compra 10 miliardi al mese di nostro debito – affinché limiti la monetizzazione del debito dei Paesi ad ampio stock come noi e la Spagna in vista del board Bce dell’8 dicembre, spingere per maggiore durezza nelle riforme relative al mondo del lavoro e in tema fiscale e attaccare ad alzo zero la manovra tutta deficit di Matteo Renzi subito dopo il referendum. 

Per quanto la Francia millanti grandeur, l’altro architrave dell’Ue è proprio l’Italia: indebolirla, potendo contare sul vassallaggio di Parigi e degli Stati falco del Nord, permetterà a Berlino di garantirsi l’egemonia che fino a oggi ha potuto esercitare per la spalla garantita dal do ut des con Barack Obama. Siamo sotto attacco, non da oggi. Ma nessuno sembra volerlo capire. Lo faremo, come sempre, quando sarà troppo tardi. Ma stavolta sarà davvero da lacrime e sangue.