Come volevasi dimostrare, passata la farsa delle elezioni statunitensi – vi spiegherò più avanti nell’articolo il mio pensiero al riguardo – ecco che l’attenzione dei mercati si è spostata sull’Italia. L’incertezza politica che potrebbe scaturire dal referendum costituzionale del 4 dicembre ha fatto impennare lo spread che ieri ha toccato quota 168 punti, con il rendimento nuovamente al 2%, livello massimo da quasi un anno e mezzo (luglio 2015, quando un altro referendum – quello greco – teneva in scacco il continente).
Certo, qualcuno fa notare che esistono altri fattori che spingono all’insù il differenziale tra Btp e Bund, ovvero l’imminente ritorno dell’inflazione, accelerato dalla vittoria di Donald Trump e i rumors riguardanti il tapering (il ritiro delle politiche fiscale espansive) da parte della Bce. La prima ha senso, ma nel medio termine, la seconda è un’idiozia totale. Intanto, nella mattinata di ieri, l’asta sui titoli di Stato italiani, che ha visto il Tesoro raccogliere quasi 7 miliardi collocando Btp con varie scadenze, ha registrato tassi di rendimento in netto rialzo. Nel dettaglio, i Btp triennali, pari a 2,75 miliardi, sono stati assegnati con un rendimento annuo lordo dello 0,3% in aumento di 27 punti base rispetto alla precedente asta e ai massimi da luglio 2015, quelli settennali, pari a 2,25 miliardi, all’1,37%, +54 punti base, mentre quelli trentennali, con scadenza 2047, pari a 1,3 miliardi, al 3,14%. «La domanda sul triennale è stata buona, ma è peggiorata nella parte lunga, tanto che il Tesoro non è riuscito a collocare neanche l’intero ammontare del titolo al 2047. I segnali di incertezza visti sul secondario in questi giorni e l’irripidimento della curva si sono riflessi oggi nelle aste», ha commentato Vincenzo Longo, strategist di IG interpellato da MilanoFinanza, a detta del quale sul rendimento del decennale italiano pesa la preoccupazione sul referendum «visto anche il populismo crescente considerata la vittoria di Trump alle presidenziali Usa».
Insomma, dopo il Brexit e il cambio della guardia alla Casa Bianca, rimane da attendere solo l’esito del voto costituzionale in Italia del 4 dicembre, momento che sarà un importante test politico non solo per il Paese, ma per tutta l’eurozona. Gli analisti di Credit Suisse, tuttavia, ritengono che il referendum potrebbe sì provocare maggiore volatilità sui mercati, ma che non ci saranno conseguenze sistemiche, neanche in caso di vittoria del “No”. Un rifiuto alla riforma, hanno puntualizzato gli esperti, «non solo non porterà all’uscita dell’Italia dall’euro, ma forse non basterà neanche per condurre il Paese verso elezioni anticipate». Sano pragmatismo elvetico.
Ero certo che il referendum sarebbe stato rinviato, invece con il passare dei giorni sempre più caselle stanno andando a unirsi e mi fanno capire che esiste un disegno preciso. Cosa vi avevo detto riguardo al fatto che Silvio Berlusconi non avrebbe messo minimamente la faccia nella campagna referendaria? È sparito, chiuso ad Arcore. Tanto che Matteo Salvini, il quale oggi sarà gran cerimoniere della manifestazione della Lega per il “No” a Firenze, lo ha attaccato, dicendo chiaro e tondo che gli elettori di Forza Italia sono delusi dal suo comportamento e, di fatto, si è auto-proclamato leader del centrodestra. Del buon Stefano Parisi non c’è più traccia, toccherà chiamare la Sciarelli. Ma quali potrebbero essere gli scenari?
Due, sostanzialmente. Il primo vedrebbe il referendum italiano andare a innescarsi nel solco del Brexit e del voto statunitense: ovvero, far trionfare i populismi per addossare loro le responsabilità della crisi economica dietro l’angolo e spazzare via il problema una volta per tutte, visto che per quanto l’immigrazione sia tema sensibile e reale, se cominciano a schiantarsi le Borse e a fallire le banche, la gente accetta qualsiasi cosa pur di salvare il salvabile e le ricette alla Trump finiscono nel cassetto della storia. Il secondo, invece, prevede la vittoria del “Sì” per una questione molto semplice: garantire a Matteo Renzi di restare in sella, portare a casa una riforma che piace all’etsablishment – più estero che italiano – e lasciare mano libera alla Commissione europea per massacrarci sui conti.
In un caso o nell’altro, sappiatelo fin d’ora, la volontà popolare c’entra pochissimo con questo referendum: siamo tornati al festival dell’eterodiretto. Qualcosa si sta agitando sotto traccia e chi opera sui mercati lo sa benissimo: per quanto il Dow Jones sfondi un record al giorno, il grado di sostenibilità di quei trend è arrivato al capolinea. Occorre far scoppiare la bolla prima che lo faccia da sola in maniera disordinata, quindi serve creare il palcoscenico giusto. Ragionateci: se si infilano quattro eventi shock di fila (Brexit, Trump, vittoria del “No” e vittoria della destra in Austria) tutti di stampo populista, quale sarà la giustificazione per qualsiasi evento nefasto accada sui mercati? Il fatto che quegli eventi siano accaduti, quindi le cosiddette elites contro cui si scaglia il voto di protesta avranno gioco facile nello sbattere in faccia alle opinioni pubbliche il disastro che hanno combinato con il loro voto mal consigliato, vedi Giorgio Napolitano su La Stampa di giovedì.
Ovviamente, i crolli azionari e – soprattutto – i bagni di sangue sull’obbligazionario non saranno colpa di Trump o del Brexit o di Bersani, ma di anni di indebitamento folle garantito dalle Banche centrali, ma pensate che nei tg e sui giornali, controllati dalle stesse elites, passerà la verità dei fatti o la vulgata che toglierà di mezzo per sempre l’ondata di protesta anti-establishment in atto? Oltretutto, in tempo per garantire una normalizzazione del clima in vista delle presidenziali in Francia (marzo 2017) e delle politiche in Olanda e Germania (maggio e settembre 2017). Troppo diabolico per essere vero?
Ragionate: sappiamo da soli che se l’establishment Usa non avesse voluto Trump alla Casa Bianca avrebbe trovato non uno ma mille modi per stroncarlo, tanto più che lui stesso ha più volte prestato il fianco con sparate a effetto. La Borsa, poi, non ha fatto un plissè. Certo, c’è tensione sui bond, ma pensate davvero che sia dovuto al fatto che una maggiore spesa per investimenti interni negli Usa spingerà al rialzo l’inflazione e quindi la Fed dovrà alzare i tassi? Primo, Trump fino al 20 gennaio resta un privato cittadino. Secondo, non siamo in presenza di Houdini, prima che l’inflazione – anche nelle aspettative a lungo termine – cominci a salire tanto da far preoccupare la Fed, ci vorranno mesi, visto che la Cina con la sua sovra-produzione continua a importare deflazione. È normale che i mercati emergenti paghino l’incertezza sui tassi, ma questa non è dovuta a Trump, ma al fatto che la Fed non li alza da 21 riunioni di fila pur minacciando di farlo da almeno un anno: prima o poi dovrà farlo per forza ma non per colpa di Trump, bensì perché siamo a tassi zero da tempo immemore, qualcosa di nemmeno contemplato nei libri di economia.
Il problema è un altro: con Hillary Clinton alla Casa Bianca un nuovo 2008 sarebbe stato imputato interamente alle elites, all’establishment che ha governato il mondo dopo la grande crisi e quindi il populismo, già forte, sarebbe potuto esplodere in maniera disordinata e non dentro l’urna elettorale. Con Trump al potere, per quanto basti ragionare a mente fredda per non cascarci, l’effetto mediatico e psicologico è invece diverso: avete voluto i populisti ed ecco il risultato. Due piccioni con una fava. Lo so, può sembrare fanta-politica e fanta-economia, ma se mettete in fila quanto accaduto dal 23 giugno in poi, vedrete che le coincidenze cominciano davvero ad essere troppe. Non ultime, il carico da novanta degli endorsement internazionali a favore del “Sì”.
Direte voi, l’America però sta registrando proteste di piazza, quindi lo shock è reale. Certo, qualcuno starà anche manifestando spontaneamente, ma, strano caso, su Craiglist, database molto popolare negli Usa per annunci di lavoro, stanno comparendo come funghi appelli del Washington Community Action Network, organizzazione per i diritti civili affiliata all’organizzazione ombrello USAction finanziata dalla Soros Foundation, nei quali si cercano «attivisti a tempo pieno per combattere l’agenda di Donald Trump». Li pagano 15-20 dollari l’ora, più i rimborsi spese. Se non ci credete, andate su Craiglist e guardate con i vostri occhi.
E tutto questo ha un senso, perché lo shock per la vittoria “inaspettata” di Trump deve sembrare reale agli occhi dell’opinione pubblica, quindi le proteste sono necessarie per legittimare il nuovo status quo. Ricordatevi che hanno fatto fuori JFK quando era diventato scomodo, a vostro modo di vedere non sarebbero riusciti a incastrare un impiastro come Donald Trump, se davvero non ne avessero avuto bisogno alla Casa Bianca come capro espiatorio? Passata la buriana, poi, ci vuole poco a far saltare fuori un bello scandalo e far scattare l’impeachment. Nulla è davvero come sembra e ve ne accorgerete presto. Molto prima di quanto pensiate.