Adesso c’è davvero da avere paura. Come ci mostra il grafico a fondo pagina, infatti, gli sbilanciamenti italiani in seno a Target2 sono arrivati al massimo storico: cosa significa? Semplice, outflows di capitali dall’Italia verso il Nord, leggi la Germania. Le posizioni interne a Target2, infatti, sono un indicatore tra i più affidabili e meno manipolabili di reale stress finanziario, ad esempio la perdita da parte delle banche di un certo Paese del finanziamento estero. Target2 ci mostra i pagamenti cross-border nella zona euro e il dato uscito ieri ci mostra come le liabilities della Banca d’Italia nei confronti del resto della zona euro siano salite di qualcosa come oltre 60 miliardi negli ultimi due mesi, raggiungendo la cifra record di 355 miliardi di euro, superando addirittura il picco del 2012, subito prima del famoso discorso di Draghi del whatever it takes.



Siamo messi male. Ma male davvero. E preoccupare, infatti, è il fatto che l’Italia continui ad avere un sano surplus di conto corrente, condizione che ci suggerisce come la fonte degli outflows si trovi all’interno del sistema bancario italiano: a luglio, Bankitalia disse che l’aumento espositorio dentro Target2 era dovuto alla vendita di assets italiani – specialmente bond – da parte di investitori esteri, mentre gli acquirenti italiani compravano assets stranieri, movimenti che solo parzialmente godevano dell’off-set di un maggior finanziamento sui mercati internazionali per le banche italiane. Ad agosto, però, questo trend è cresciuto drammaticamente, instillando in più di un operatore dei dubbi su quale fosse il reale stato di salute del sistema bancario italiano, questo nonostante le quasi quotidiane rassicurazioni di Renzi e Padoan. E con le fughe di capitali in aumento con l’approssimarsi del referendum, qualcuno comincia a parlare seriamente di Italeave, ovvero il nostro Brexit. Capito adesso il continuo aumento del nostro spread in quest’ultimo periodo, sia nei confronti del Bund tedesco che dei Bonos spagnoli? 



E guarda caso, a mettere pressione sull’Italia in questa fase così delicata, è Deutsche Bank con il suo ultimo report, dal quale si desume che non solo la vittoria del “No” al referendum ora è al 60%, ma anche che un esito simile equivale all’Italeave, questo per il nesso molto complicato del nostro Paese tra crescita, banche e politica. Insomma, crescita deludente, preoccupazioni attorno al sistema bancario e aumento dei consensi per i partiti definiti “populisti” stanno facendo crescere le probabilità di un addio dell’Italia all’euro o anche all’Ue. 



Deutsche Bank fa notare che l’ipotesi di vittoria del “No” è cresciuta di cinque punti percentuali dal suo ultimo report al riguardo del 19 ottobre scorso, salendo dal 55% all’attuale 60%: per la banca tedesca, il cui stato di salute è testimoniato ogni giorno dalle performance di mercato, ma che continua a dare lezioni a tutti, sono tre le criticità che giocano a favore del “No”. Ovvero, l’economia non è supportiva alla politica del governo, nessuno degli ultimi sondaggi vede il “Sì” in vantaggio e lo stesso Pd è diviso sulla riforma, mentre le opposizioni sono compatte e unite per il “No”. E Deutsche Bank mette il carico da novanta, perché all’interno del report descrive anche i tre possibili scenari. Il primo, definito best case e dato al 40% di probabilità, è la vittoria del “Sì” al referendum. 

Per Deutsche, «l’approvazione della riforma potrebbe, almeno nel breve termine, essere il best-case scenario e quello più gradito dai mercati. Il governo potrebbe proseguire fino alla scadenza del suo mandato, nella primavera del 2018, ma, nonostante questo, anche una vittoria del “Sì” non sarebbe una panacea. Ci aspettiamo che non ci saranno riforme sostanziali o soluzioni sistemiche per il sistema bancario prima delle prossime elezioni politiche, quindi economia e banche continueranno a essere vulnerabili a shock negativi. Una vittoria del “Sì” potrebbe premiare i partiti riformisti e pro-Ue, ma i partiti euroscettici continueranno a drenare supporto fino a quando la ripresa non si farà sostenuta, cosa abbastanza improbabile. Inoltre, il dibattito sul tapering degli acquisti da parte della Bce potrebbe tornare a dominare i mercati nella seconda metà del 2017, prima del voto italiano». 

Secondo scenario, definito tail risk: elezioni anticipate. Per Deutsche, «in caso di sconfitta della riforma – probabilità al 60% – lo scenario più distruttivo sarebbe quello di un ritorno immediato alle urne, nel primo trimestre del 2017. A far scattare questa ipotesi sarebbe l’impossibilità di formare un nuovo governo a causa di divisioni insormontabili tra i partiti tradizionali: un fallimento anche nel trovare un compromesso per una nuova legge elettorale avrebbe un simile impatto, ma con un orizzonte più a lungo termine. Comunque, diamo a questa ipotesi solo un 20% di probabilità, visto che si andrebbe al voto con un sistema di voto ibrido. Attualmente, il Movimento5Stelle è favorito per vincere il premio di maggioranza, ma, comunque, dovrebbe cercare il supporto di altri partiti per ottenere il voto di fiducia al Senato, questo nonostante la sua storica contrarietà verso le coalizioni. M5S potrebbe cercare un compromesso con altri partiti euroscettici come la Lega Nord e Fratelli d’Italia, promuovendo un referendum consultivo non vincolante sull’euro. Questi partiti avranno grosse difficoltà a collaborare per formare un governo, ma noi vediamo delle similitudini con quanto avviene in Catalogna, dove un’eterogenea maggioranza di partiti sta insieme per il solo fine di raggiungere l’indipendenza da Madrid». 

Terzo scenario, ovvero il central case post-referendario a detta di Deutsche Bank. «Se la riforma sarà bocciata il nostro central case scenario vedrebbe Renzi dimettersi e la nascita di un nuovo governo supportato da una maggioranza parlamentare simile a quella attuale con il solo scopo di scrivere la nuova legge elettorale e con durata limitata. Il presidente della Repubblica potrebbe conferire un nuovo mandato a Matteo Renzi o, alternativamente, a un altro membro del Pd o all’attuale ministro delle Finanze. Ci aspettiamo in questo caso un’elezione anticipata nel giugno del 2017». 

Poi, le conclusioni. Per Deutsche Bank, «nel caso di scenario migliore potremmo rivedere modestamente al rialzo le nostre stime per il Pil italiano del 2017, il prestito bancario potrebbe migliorare e lo spread restringersi. Ci aspettiamo che le equities legate al comparto bancario vadano in outperformance». Insomma, se vince il “Sì” sarà il paradiso terrestre. Nel secondo caso, il tail-risk scenario, «pensiamo che gli assets italiani andranno sotto intensa pressione in sei stadi incrementali». Mentre nel terzo scenario, «la reazione iniziale del mercato potrebbe essere modestamente negativa e, una volta formato il nuovo governo, potrebbe esserci una parziale ripresa. C’è il rischio di una compiacenza del mercato, visto che gli investitori potrebbero ignorare l’instabilità politica prezzandola come di fatto lo status quo italiano da sempre». Per Deutsche Bank, invece, «occorre essere in disaccordo con questa visione, perché noi vediamo un non-trivial risk nel fatto che un prolungato periodo di governo inefficiente possa portare a un’instabilità sistemica nel medio termine».

Ma non basta, perché intervistato da Bloomberg al riguardo, il capo economista di DB, David Folkerts-Landau, ha messo il carico da novanta, predicendo che «se l’Italia dovrà fare i conti con ulteriori difficoltà ci sarà bisogno dell’intervento del Fondo monetario internazionale». E ancora: «Il mio timore è che più ci si avvicina alla data del referendum, e più l’effetto dell’elezione di Trump si fa sentire, più gli investitori esteri usciranno dall’Italia sino a far esplodere lo spread. Questo scenario di instabilità prefigurerebbe un grave impatto sui settori bancari italiano ed europeo, poiché l’Italia rappresenta l’epicentro da cui rischia di giungere ulteriore instabilità in Europa. Senza riforme l’Italia sconterebbe uno stato di crisi continua». E sentenzia, paventando l’arrivo della troika: «L’opera di riordino dovrà essere compiuta dall’esterno o in caso contrario rischia di non essere mai intrapresa. Senza riforme, sarebbe meglio fuori dall’euro». 

Insomma, da parte del colosso bancario (con i piedi d’argilla) tedesco un bell’assist alla campagna per il “Sì” e l’ennesimo caso di intromissione quasi terroristica nella nostra scena politica: proprio sicuro Matteo Renzi che sia saggio mettere il veto sul bilancio Ue, come ha minacciato ieri, bloccandolo? Lo dico per lui, perché la pazienza tedesca dopo questo bel regalo, potrebbe finire in fretta e spedirci lo spread alle stelle stile 2011. E attenzione davvero a scherzare con il fuoco, perché con lo stock di debito che ci portiamo addosso, ogni starnuto si tramuta in bufera. 

L’unica nota positiva, non per la credibilità dei mercati, ma per la sopravvivenza sul breve termine, ci viene da questo grafico, il quale ci mostra come per il 27mo mese di fila, i prezzi dell’import statunitense siano calati a ottobre (-0,2% su base annua), questo nonostante un aumento nei carburanti e nei lubrificanti (+7,2% su base mensile). Cosa significa? Che la Cina sta importando deflazione al massimo da sei anni a questa parte, esattamente dall’ottobre 2010 e, quindi, l’8 dicembre state certi che Mario Draghi annuncerà il prolungamento del Qe oltre il marzo 2017, magari adducendo proprio questa ragione come motivazione. Ma come vi dico sempre, stiamo solo calciando il barattolo in avanti. Prima o poi, toccherà il muro. E ci ritornerà indietro con tutti gli interessi. 

Leggi anche

SCENARIO/ Mattarella e papa Francesco indicano la strada all'Italia divisaSCENARIO/ L'alt di Mattarella ai "gestori" della volontà popolareI NUMERI/ Così la crisi ha spaccato l'Italia