La frattura, per ora, è evitata. Ma le tensioni tra Roma e Bruxelles restano agitate, ben oltre il livello di guardia. Il clima internazionale, segnato dall’irruzione dell’effetto Trump e della minaccia del protezionismo (ma non è meno importante la svolta sul costo del denaro stimolata dal nuovo presidente Usa), contribuisce ad alzare il tono della sfida assai al di là di quanto non suggerisca il linguaggio della diplomazia e l’esito del voto con cui l’altra notte il Consiglio Ue e il Parlamento hanno raggiunto un accordo sul bilancio 2017 con impegni totali a 157,88 miliardi e pagamenti a 134,49 miliardi. Nella votazione l’Italia si è astenuta ed è la prima volta che accade nel quadro delle decisioni sul bilancio comunitario annuale.
Seppure la proposta della presidenza Ue e accettata dal Parlamento europeo abbia recepito alcune richieste italiane, “ciò non è stato ritenuto sufficiente per votare in favore”. Il sottosegretario Sandro Gozi ha precisato che “sul bilancio 2017 si decide a maggioranza qualificata. Rimane la riserva italiana sul pacchetto generale e in particolare sul bilancio multilaterale”. Perciò “decideremo a dicembre se togliere il veto. Intanto abbiamo già ottenuto risposte e aumento dei fondi su Erasmus, piccole e medie imprese, e garanzie per i giovani. È certamente un passo avanti anche se rimane comunque il nostro veto”.
Messa così, sembra che l’Europa sia pronta ad accettare la linea “dura” dell’Italia, più decisionista in materia di politica estera (vedi il no a nuove sanzioni verso la Russia), pronta a battere i pugni sul tavolo per veder rispettate le proprie ragioni sui vincoli di bilancio, lanciata alla carica contro gli effetti della politica dell’austerità. In realtà, l’attivismo italiano segnala solo un certo malessere, giudicato con un misto di sufficienza e di preoccupazione dai partner. Vediamo perché:
L’ultimo report di Standard & Poor’s segnala in maniera impietosa le difficoltà strutturali del Bel Paese, che non sono state nemmeno intaccate dalla pioggia di annunci “rivoluzionari” in arrivo dall’esecutivo. L’Italia non tornerà ai suoi livelli pre-crisi prima della metà del prossimo decennio, prevede Jean-Michel Six, capo economista per l’area Emea di S&P Global Ratings. II tallone d’Achille è la produttività debole del Bel Paese, l’unico tra gli Stati Ue a non aver registrato alcun incremento dal 2000. Per questo, ha stimato Standard & Poor’s, il Pil italiano è destinato a non superare un +1% annuo nel periodo 2016-2018 e a raggiungere i livelli di crescita pre-crisi solo a metà del prossimo decennio.
L’apporto del Quantitative easing e dell’euro debole che avrebbero dovuto alimentare l’economia a partire dall’export non hanno raggiunto risultati sperati: le esportazioni della Penisola nel terzo trimestre di quest’anno si sono attestate del 4% al di sopra dei loro picchi antecedenti la crisi finanziaria, dato modesto se comparato al +15/25% di alcuni partner di Eurolandia.
Poco contributo è arrivato anche dall’azione del governo che, seppur provando a colpire direttamente le problematiche del mondo del lavoro e dell’elevato stock di crediti deteriorati, finora ha fatto pochi progressi. Ad aggiungersi a ciò, “nel breve termine, l’incertezza intorno al referendum del 4 dicembre peserà sul clima economico”, mentre nel medio-lungo termine “i pochi progressi previsti in termini occupazionali daranno un supporto limitato alla spesa delle famiglie, andamento che dovrebbe essere opposto per gli investimenti, attesi in ripresa graduale, ma vulnerabile”, conclude l’analisi.
L’Italia, insomma, ha sprecato l’occasione offerta dal Qe. Come scrive Federico Fubini, “il Paese ha usato i risparmi degli interessi sul debito per finanziare spese che non aumentano il potenziale di crescita”. Lungi dal crescere, in questi cinque anni L’Italia ha perso un decimo delle sue quote sull’export mondiale. Un bel guaio ora che la bella stagione volge al termine. Proprio ieri Yves Mersch, membro del direttorio della Bce, ha sostenuto che un’estensione troppo prolungata degli acquisti di asset rischia di fornire “incentivi sbagliati” ai governi, fino a contravvenire le regole europee sul finanziamento degli Stati.
Insomma, non aspettiamoci un cambio di rotta della politica europea proprio adesso, quando sale la tensione con Washington. Dagli Usa soffia il vento del rialzo dei tassi come all’inizio degli anni Ottanta. Allora, anche per lo stimolo della spesa pubblica post terremoto dell’Irpinia, il debito italiano si avviò, inesorabilmente, sopra il 100%, nonostante il boom delle entrate fiscali. Oggi l’effetto potrebbe essere ancora peggiore: in gioco è la sostenibilità stessa degli equilibri della finanza pubblica.
In sintesi: è giusta la polemica conto l’austerità priva di obiettivi di crescita. Ma è ancora peggio una politica di spesa basata sulle emergenze elettorali, incapace di dar risposte sul fronte della crescita.