Mentre Donald Trump faceva filtrare attraverso il suo staff l’intenzione di creare una banca per le infrastrutture sul modello di quella cinese e canadese, mandando in sollucchero chi vede in questa operazione più debito e quindi un possibile intervento della Fed, proprio la numero uno della Banca centrale Usa parlava al Congresso statunitense sullo stato dell’economia del Paese e sulle prospettive per il futuro. Per l’ennesima volta, Janet Yellen ha dichiarato che la Fed potrebbe alzare i tassi di interesse «relativamente presto» se i dati economici continueranno a indicare un miglioramento del mercato del lavoro e la risalita dell’inflazione. 



Stando all’intervento di Yellen, tutto fa presagire un’inflazione al 2% nel prossimo biennio con un ulteriore rafforzamento delle condizioni del mercato del lavoro, con l’aumento dell’occupazione e i prezzi dell’energia che dovrebbero sostenere la spesa delle famiglie. Tuttavia, «aspettare un’ulteriore evidenza non vuol dire non avere fiducia», ha sottolineato il governatore della Fed, specificando come sia d’obbligo «essere lungimiranti nel determinare la politica monetaria». Se il Fomc dovesse ritardare eccessivamente il rialzo dei tassi, «si rischierebbe poi di dover agire troppo repentinamente per evitare un rimbalzo significativo dell’inflazione, senza dimenticare che tassi bassi troppo a lungo potrebbero incoraggiare atteggiamenti finanziari avvezzi al rischio». 



Ora, mettiamo le cose in prospettiva. Già oggi l’inflazione core negli Usa è superiore al livello di mandato della Fed del 2% ed è così da inizio anno, visto che il costo della vita sta salendo ai massimi dal 2007 su base annua: l’energia sconta un +3,5% su base mensile, mentre l’incremento maggiore è quello legato alle spese per la casa, salito del 3,5% su base annua. Se davvero, come dice, la Fed basasse le sue scelte sui dati macro, avrebbe dovuto alzare i tassi lo scorso marzo. Anche perché grazie alle revisioni e ai trucchetti contabili l’economia sembra andare a gonfie vele: i dati pubblicati giovedì hanno evidenziato una diminuzione del numero di lavoratori che per la prima volta hanno richiesto i sussidi di disoccupazione negli Stati Uniti, dato che si è portato ai minimi dal novembre 1973, giova però ricordare che il mese successivo l’America entrò in recessione. Stando a quanto riportato dal Dipartimento del Lavoro, nella settimana conclusasi il 12 novembre, le richieste iniziali di sussidi sono calate di 19mila unità a 235 mila, con il dato della settimana precedente invariato a 254 mila. 



Peccato che il dato della partecipazione alla forza lavoro negli Usa ci dica che siamo di fronte a un calo dovuto a una triste realtà: ormai i multiple jobs sono la norma, ovvero per campare si fanno due, tre lavori part-time contemporaneamente. E la chiamano ripresa. Insomma, la Fed pare intenzionata a calciare ancora un po’ il barattolo, forse in attesa che siano Bank of Japan prima e Bce poi a mettere le carte sul tavolo e dirci cosa intendono fare rispetto al Qe e alla politica inflazionistica. 

E una mezza indicazione di come pare orientata l’Eurotower è giunta sempre giovedì dalla pubblicazione dei verbali del direttivo dello scorso 20 ottobre. Cosa dicevano? «I rischi per le prospettive economiche dell’area euro continuano a essere orientati al ribasso, mentre l’inflazione stenta a mostrare chiari segnali di ripresa». Accidenti che novità, parole mai sentite fino a oggi. Per la Bce, «la ripresa, moderata ma stabile, continua a resistere all’incertezza globale politica ed economica, ma rimane soggetta a rischi al ribasso». Mentre «l’inflazione appare destinata a crescere ulteriormente nei prossimi mesi, principalmente per i più elevati prezzi dell’energia, ma l’inflazione core, ovvero depurata dalle componenti volatili di cibo ed energia, continua a mancare di chiari segnali di una tendenza al rialzo convincente». 

E, infatti, i membri della Bce, durante il loro ultimo incontro, si sono detti pronti a potenziare il Qe, se necessario: «Occorre implementare gli acquisti di asset, in linea con le decisioni precedenti della Banca, e adottare ulteriori misure, se necessario». Compreranno anche l’aria che respiriamo, ma è necessario, almeno per evitare che l’intera impalcatura di questo mercato drogato dalle Banche centrali crolli del tutto. E veniamo al capitolo Qe. La Bce ha assicurato che l’applicazione del Quantitative easing «prosegue senza intoppi a fronte di un livello di liquidità complessivamente soddisfacente sul mercato, nonostante la crescente preoccupazione dei mercati per la scarsità che emerge in alcuni segmenti». Scusate, ma se tutto procede senza intoppi, perché si continua ad ampliare la platea del collaterale eligibile all’acquisto e nella riunione dell’8 settembre quasi certamente si cambieranno i criteri di acquisto, eliminando la capital key e quindi potendo acquistare anche obbligazioni con rendimento inferiore allo 0,40%? 

Semplice, ciò che vi dico da mesi: se Francoforte non amplia la platea di assets acquistabili, rischia di ritrovarsi presto senza più bond da comprare, alla luce dei livelli molto bassi toccati dai costi di finanziamento in tutta Europa. Certo, l’incremento generalizzato dei rendimenti, accelerato dopo la vittoria elettorale di Donald Trump in Usa per i timori di inflazione in rialzo per la spesa interna, potrebbe venire incontro alla Bce, ma c’è il rovescio della medaglia: ovvero le tensioni sugli spread nei mercati di capitale, visto che giovedì il nostro differenziale con il Bund ha superato 180 e anche il rendimento del Bonos a 10 anni ha toccato l’1,61%, un livello che non si registrava dall’inizio dell’anno. 

E a dimostrazione che l’aria comincia a farsi pesante in Europa sono arrivate, sempre giovedì, le parole del primo ministro francese, Manuel Valls, nel corso di un evento organizzato dal quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung: «L’Europa può morire, per questo Germania e Francia hanno una grande responsabilità». A parte il non pervenuta dell’Italia tra i Paesi che devono fare di più per cercare di evitare che l’Ue cada a pezzi, giova constatare che dopo anni di stagnazione, deterioramento delle condizioni economiche e tassi di disoccupazione senza precedenti e ampiamente in doppia cifra in Paesi come Spagna, Grecia e Italia, pare che l’Europa si sia svegliata. Meglio tardi che mai: saranno state le scoppole del Brexit e della vittoria di Trump, ma, parlando a Berlino, Valls ha detto chiaramente che ora occorre lavorare duro per stimolare la crescita e l’occupazione e per dare risposte alle preoccupazioni dei cittadini. Tradotto: la Bce non ha fatto nulla per l’economia reale e si è limitata ad aiutare le banche e tenere in positivo gli indici azionari, quindi ora è arrivato il momento di intervenire prima che la corda della pazienza della gente si spezzi. Tradotto ulteriormente: se voglio evitare che Marine Le Pen vinca le presidenziali a maggio, meglio che suoni la sveglia a tutti e spinga per un enorme stimolo di spesa fiscale. 

A confermarlo, le parole finali di Valls: «Il Brexit e l’elezioni di Donald Trump ci dimostrano come sia importante ascoltare il malessere dei cittadini e che i politici spaventati dal prendere decisioni stiano solo aprendo le porte a demagoghi e populisti». Ma guarda un po’ che capriola, il buon Valls. Tornando alle minute della Bce, ecco poi il nodo fondamentale, più ancora del Qe nel breve termine: l’elevato ammontare di prestiti deteriorati – o sofferenze – nei bilanci delle banche europee, il quale rischia di pesare sulla trasmissione degli effetti delle decisioni di politica monetaria della Bce. «La futura evoluzione degli standard, dei termini e delle condizioni del credito va monitorata con cura. Gli attuali problemi strutturali nei bilanci delle banche, che sorgono principalmente dai livelli ancora alti di sofferenze in parte del settore bancario europeo, insieme alle sfide di carattere normativo e alla debolezza nella redditività, sono visti come un possibile rischio per la trasmissione della politica monetaria e di un’ulteriore ripresa delle dinamiche del credito». 

Ed ecco emergere quanto vi ho sottolineato nel mio articolo di ieri, ovvero la battaglia su Basilea 4: per la Bce, «le sfide di carattere normativo e la futura evoluzione degli standard del credito si riferiscono alle nuove regole di Basilea 4 che costringeranno gli istituti europei ad accantonare ancora più capitale, rischiando di innescare un nuovo credit crunch». Insomma, i prossimi 28 e 29 novembre a Santiago del Cile si potrebbe decidere molto del futuro economico dell’eurozona. Giusto in tempo per garantire a Mario Draghi 8 giorni di ulteriore riflessione sul da farsi, prima del board dell’8 dicembre e passato il referendum costituzionale italiano e il ballottaggio per le presidenziali in Austria. 

La Germania? Dopo la sparata di Manuel Valls, dubito che tenterà blitz rigoristi, anche se le minute pubblicate giovedì contenevano le critiche verso il Qe del membro tedesco dell’esecutivo della Bce, Yves Mersch, il quale ha invitato l’Eurotower a ridurre il proprio programma di acquisto di asset il più presto possibile, sebbene questo richiederà tempo. «Un’estensione troppo prolungata degli acquisti di asset rischia di fornire incentivi sbagliati ai governi, fino a contravvenire alle regole europee sul finanziamento degli Stati. Gli acquisti di bond sono stati introdotti come misura temporanea e devono essere ridotti il prima possibile», ha osservato Mersch, aggiungendo tuttavia che «alla luce del volume del programma di acquisti, ciò richiederà tempo». Della serie, dovevo fare la mia sparata per contratto, ma so da solo che ormai la strada è segnata.