Nel 2017 – secondo le promesse della premier May sollecitate anche dai leader europei – la Gran Bretagna materializzerà la decisione scaturita nel 2016 dalle urne di uscire dall’Unione europea, la cosiddetta Brexit. Pochi forse ricorderanno che giusto 60 anni prima, nel 1957, si cominciò a porre il problema opposto, quello dell’ingresso del Regno Unito nella (allora) Cee, problema a cui potremmo attribuire, per parafrasi, il nome “ Brentrance”. Reputiamo interessante confrontare le problematiche e gli interrogativi che si profilano oggi come conseguenza della suddetta decisione con quelle/quelli che erano oggetto di ponderazione sessanta anni fa e relativi a un target opposto.



Oggi, come noto, si discute di come la Gran Bretagna dovrà essere esclusa dalla gestione e dalla fruizione dei vantaggi dell’Unione europea. L’applicazione anche alle sue esportazioni verso l’Europa di dazi doganali , ormai dimenticati da 43 anni, rappresenterà un arretramento sensibile dei suoi flussi di esportazioni verso il continente, mentre le sue importazioni non diminuirebbero in modo sensibile e quindi si produrrebbe un certo squilibrio nei suoi conti economici.



Uno studio della London School attribuisce a questo solo aspetto di un problema molto più denso (la perdita del “vantaggio comparato”) una diminuzione del Pil compresa fra l’1,37 e il 2,92 per cento. Un altro effetto negativo per le prospettive di crescita economica del Paese l’avrebbe la fine delle sue attuali politiche di accoglienza e valorizzazione di giovani “cervelli” – europei e non, ma comunque non più “equiparati” ai nativi – che oggi danno un apporto considerevole al suo Pil (anche a scapito di quello dei Paesi “esportatori”, come l’Italia). Quali saranno le sue scelte successive: un ritorno all’Efta? E quindi all’Eea (European Economic Area), che permette ai Paesi Efta di partecipare al mercato comune europeo senza dover essere membro dell’Unione? Per ora non è dato sapere . Magari le capacità diplomatiche e il suo storico, consolidato pragmatismo suggeriranno al Regno Unito altre tipologie di accordi, che ora non è possibile prevedere, ma che magari gli consentiranno di sfruttare ancora la globalizzazione dei mercati e di superare l’indubbio indebolimento provocato dalla già iniziata dislocazione delle attività finanziarie della City.



Se questi sopraelencati sono molto sinteticamente i problemi legati alla Brexit, è istruttivo constatare che le problematiche della Brentrance concernevano gli stessi argomenti. Infatti, quando, verso il 1950, gli Stati europei che poi sarebbero diventati “i Sei” cominciarono a manifestare la loro volontà di unirsi, l’Inghilterra si tenne in disparte da quella che considerava una pura e semplice utopia. Per tradizione, per convinzione e anche per prudenza la Gran Bretagna aveva sino ad allora sempre preferito l’isolamento, consono alla sua posizione geografica e a ogni sia pur minima rinuncia alla propria sovranità. La prima fase della Brentrance si concludeva nel 1957, l’anno in cui la Gran Bretagna proponeva l’istituzione di una “zona di libero scambio” all’interno dell’Ocse, come antitesi all’allora indesiderato matrimonio con “ i Sei”. La ragione della resistenza all’adesione alla Cee stava nel rifiuto dell’adozione di una tariffa esterna comune verso i paesi terzi, inconcepibile per una nazione che godeva di un regime preferenziale sui propri scambi con il Commonwealth. Durante le trattative “i Sei” insistettero sulla protezione data dalla tariffa esterna comune e nel novembre 1958 le trattative sulla Brentrance vennero interrotte.

Nel mese di gennaio 1959 la Cee divenne una realtà, con le previste prime misure di liberalizzazione nel campo delle tariffe doganali. Nel mese di novembre dello stesso anno – accantonata la sua richiesta di adesione – l’Inghilterra diede vita all’Efta (Associazione Europea di libero scambio) in accordo con altri sei paesi, e realizzava così in forma ridotta il progetto della “zona” che un anno prima era naufragato. Per qualche tempo Efta e Cee si fecero concorrenza “leggera”, a suon di tariffe doganali, ma già nel 1960 l’orientamento della Gran Bretagna “politica” riprendeva a essere quello dell’ammirazione per i successi della Cee e del suo maggior dinamismo rispetto alla staticità delle economie dell’Efta, in primis la propria. Ma rimaneva l’avversione alla Cee di quei cittadini che sostenevano che la Gran Bretagna non poteva innalzare fra sé e il Commonwealth la barriera della tariffa esterna comune. E contrario all’adesione era anche il comparto dell’agricoltura, tanto che si pensò di limitare l’unione doganale ai soli prodotti industriali. Ma, oltre che da segmenti della sua popolazione, analoghe pressioni per distogliere la Gran Bretagna da nuovi tentativi di associarsi alla Cee provenivano dagli altri Paesi dell’Efta (Svizzera, Svezia, Austria) con cui si era associata appena due anni prima.

Come detto, ancora nel 1960 non si poteva dire che l’idea dell’adesione alla Cee dell’Inghilterra fosse stata buttata del tutto alle ortiche. Anzi, proprio a seguito delle riflessioni che in quel periodo erano andate maturando, la prima vera richiesta formale di Brentrance veniva avanzata da MacMillan nel 1961, quattro anni dopo i Trattati di Roma, assieme alla Danimarca e all’Irlanda, seguite nel 1962 dalla Norvegia. Su pressione di De Gaulle, che metteva in dubbio la volontà del Regno Unito di entrare davvero nella Comunità, nel gennaio 1963 i negoziati venivano interrotti. La pausa durò fino al 1967, quando i quattro candidati citati (il premier inglese era Harold Wilson) chiesero una seconda volta l’ingresso nel Mercato comune, senonché la Francia non diede il suo consenso ai negoziati neppure questa volta. Gli stessi quattro candidati tornarono a chiedere l’ingresso nella Cee nel 1969, e questa volta la Francia di Pompidou (succeduto a de Gaulle) non pose più ostacoli, consentendo quindi l’inizio dei negoziati che durarono oltre tre anni (con i laburisti di Wilson sempre al governo).

La Brentrance ebbe finalmente successo, cosicché col 1° gennaio 1973 il Regno Unito (ma anche la Danimarca e l’Irlanda, non invece la Norvegia che aveva ritirato la domanda a seguito del prevalere dei No nell’apposito referendum) diventò membro effettivo della Cee. Al governo in quel momento stavano i conservatori e Primo Ministro era Edward Heath. Il matrimonio era destinato a durare 43 anni, ma già nel 1975 esso veniva posto sotto i riflettori nazionali tramite un referendum popolare di approvazione che, con il suo 70% di consensi, rappresentò un davvero triste e ironico precedente di quello che 41 anni dopo segnerà un “pentimento” di storica portata.