Ai cantori del liberismo selvaggio, queste notizie daranno soddisfazione. Oggi, 23 novembre, mentre l’Alitalia celebrerà l’ennesimo consiglio d’amministrazione destinato a prendere atto di risultati peggiori del previsto, i piloti della tedesca Lufthansa sciopereranno per chiedere l’aumento degli stipendi. Facendo cancellare 876 voli e “disturbando” centomila passeggeri. Difficoltà e disagi “figli” del crollo dei prezzi degli ultimi vent’anni che ha portato in auge solo le compagnie low cost. Sono solo queste che guadagnano, e anch’esse soltanto grazie a due espedienti non belli: innanzitutto quello di non essere realmente “low-cost”, perché ai prezzi stracciati del puro e semplice trasporto aggiungono tali e tanti sovraprezzi, per le più piccole e ovvie richieste supplementari dei passeggeri, da risultare alla fine care quasi quanto le compagnie tradizionali; e poi perché quasi sempre – e Ryan Air in Italia ha fatto scuola, al riguardo – pretendono, e ottengono, quattrini sonanti per portare i loro aerei in aeroporti periferici che non basterebbero a remunerare le compagnie tradizionali.



Lufthansa, tra le compagnie tradizionali, è gestita bene, ma blocca i salari per non perdere. Alitalia è gestita evidentemente assai meno bene e perde. E sì che il petrolio costa poco. Le low-cost guadagnano: EasyJet macina profitti record da cinque anni, Ryanair continua a incrementare i suoi profitti di anno in anno. Lufthansa – dicono i suoi piloti riuniti nel sindacato Vereinigung Cockpit -ha guadagnato 5 miliardi negli ultimi 5 anni, durante i quali non ha aumentato di un euro lo stipendio dei suoi piloti. Ha offerto in settembre un aumentuccio del 2,5% entro il 2018, i piloti chiedono almeno il 3,66%. Si metteranno d’accordo, sono tedeschi: ma la protesta di oggi esprime un disagio che cresce perfino in Germania per la rottura dello storico, mitico equilibrio sassone tra andamento dell’azienda e salari variabili…



Di tutt’altra natura la crisi Alitalia. Risanata, si fa per dire, sul tramontare dell’ultimo governo Berlusconi con un’iniezione di soldi pubblici per affossare la vecchia compagnia e dare spazio alla nuova la cui nascita parrebbe costata ai contribuenti (bilancio mai quadrato) addirittura 7 miliardi di euro di perdite in vent’anni, Alitalia è stata rilevata per il 49% (la maggior no, ohibò, non sono europei!) dai magnati emiratini di Etihad che, beati loro, i costi del carburante li mettono al passivo ma non li patiscono perché usano petrolio di casa loro, quindi da una parte perdono e dall’altra intascano. Ma la gestione ordinaria fa acqua.



I gossip pronosticano per Alitalia 400 milioni di perdite quest’anno e 500 l’anno venturo. La beffa è che, fermi gli emiratini al 49%, qualunque ripianamento va condiviso con i soci italiani che amerebbero non mettere più mano alla tasca: men che meno Unicredit e Intesa Sanpaolo. E allora? Come faranno gli arabi a pagare, volendo, senza salire di quota? Chi glielo spiega all’Unione europea? La gabola si troverà: una conversione delle obbligazioni capace di trasferire nelle mani degli arabi titoli non rappresentativi del capitale ma utili per intascare più dividendi se mai venissero in futuro. In ballo, il solito piano di tagli, con circa 2000 persone in meno, che, manco a dirlo, verrà annunciato dopo il referendum.

Per salvarsi, insomma, l’ex compagnia di bandiera vuole trasformarsi in una low-cost… ridotto personale a terra, cibi e bibite a bordo solo a pagamento, niente salette-vip. Meno aerei a girare, perché il “load-factor” (quanti passeggeri per volo) sarebbe ancora insoddisfacente. E sempre più Emirati a comandare. Senza parere.