Tic tac, tic tac. Non parlo di caramelle, ma della bomba che abbiamo innescata sotto le terga senza nemmeno che ce ne accorgiamo. Partiamo dalla cronaca nota, per finire poi in quella che non viene raccontata sui giornali, ma rischia di esploderci in faccia dopo il 4 dicembre, chiunque vinca. Lunedì Mario Draghi è intervenuto al Parlamento Ue per fare il punto della situazione e, di fatto, ha confermato ciò che vi dico da mesi: il Qe andrà avanti anche dopo il marzo dell’anno prossimo. Parlando davanti agli eurodeputati, il numero uno della Bce si è infatti detto certo che l’inflazione dell’eurozona continuerà a salire nei prossimi mesi, principalmente grazie alla stabilizzazione dei prezzi del petrolio: lo scopriremo presto, esattamente mercoledì prossimo alla riunione dell’Opec a Vienna. Per Draghi, poi, ci sono fattori statistici dietro al segno più nell’indice dei prezzi di eurolandia: «Non stiamo assistendo a un rafforzamento costante della dinamica sottostante dei prezzi». Insomma, finora abbiamo fallito la missione e siccome siamo sideralmente distanti dall’obiettivo del 2% il Qe non può che andare ben oltre il marzo del 2017, almeno fino a fine anno prossimo. 



Per Draghi, il ritorno dell’inflazione verso l’obiettivo del 2% «si basa ancora sul proseguimento dell’attuale e senza precedenti livello di sostegno monetario, nonostante la progressiva chiusura del gap di produzione. Per questo motivo, rimaniamo impegnati a preservare il notevole grado di accomodamento monetario necessario per garantire una convergenza duratura verso il target prefissato nel medio periodo». Tuttavia, «il supporto della politica monetaria deve essere accompagnato da un’azione decisiva anche in altre aree politiche. Infatti, continuiamo ad affrontare una serie di sfide strutturali che frenano un’espansione più dinamica dell’economia dell’area dell’euro. Quindi devono essere implementate le giuste politiche per risolvere le vulnerabilità e i problemi esistenti e, in ultima analisi, garantire una maggiore crescita sostenibile per l’Eurozona». Insomma, il solito Draghi, carota degli acquisti e bastone delle riforme. 



Parlando in linea generale, per il capo dell’Eurotower, «la ripresa economica dell’eurozona prosegue a un ritmo moderato ma stabile e ha mostrato una notevole tenuta alle incertezze globali», soprattutto in due ambiti precisi. In primo luogo, «la disoccupazione ha continuato a calare, con la creazione di oltre 4 milioni di posti di lavoro dal 2013, quando la situazione ha toccato il punto peggiore». In secondo luogo, «la domanda interna si è rafforzata e la crescita reale del Pil ha mostrato dinamiche positive per 14 trimestri consecutivi», dato per il quale Draghi ha voluto rivendicato con forza il ruolo fondamentale ricoperto dalla politica monetaria. 



Ma ecco arrivare il nodo gordiano delle banche, la vera ragione per cui lo spread continua a ballare, nonostante gli acquisti della Bce. Per Mario Draghi, infatti, il problema più ingente rimane la bassa redditività degli istituti di credito, debolezza condizionata da un contesto di bassi tassi di crescita e inflazione che si traduce in bassi tassi di interesse. Non a caso, ieri, con tempismo perfetto, il New York Times ha pubblicato un articolo nel quale si affermava che «le banche italiane sono in una crisi al rallentatore. E l’Europa potrebbe pagare». Per il quotidiano Usa, «i problemi dell’Italia sono i problemi dell’Europa. Nelle ultime settimane l’attenzione si è spostata su Deutsche Bank, con i timori che potesse essere costretta a un salvataggio. Ma se Deutsche Bank è la crisi del momento, l’Italia è la minaccia perpetua che potrebbe presentare in ogni momento al mondo una sorpresa spiacevole». 

Difficile dare loro torto, a conti fatti. Per Draghi, «la razionalizzazione e il consolidamento devono far parte della risposta. Dove le sofferenze sono a un livello alto si devono creare le condizioni per una risoluzione più rapida dei non performing loans». In tal senso, «bisogna rimuovere tasse e impedimenti alla ristrutturazione dei debiti, oltre a lavorare allo sviluppo di una industria dei servizi sui crediti deteriorati per migliorare la raccolta e l’accesso ai dati». Resta un nodo, fondamentale e che spaventa: finché non sapremo davvero a quale valore quelle sofferenze sono state iscritte a bilancio dalle banche e quale sia il loro reale valore di mercato, avendo proprio la Bce distrutto il concetto di price discovery, non sapremo mai quanto alto sia il rischio che, dalla sera alla mattina, un istituto possa ritrovarsi insolvente all’interno di uno stato di crisi generale, magari innescato da una sell-off obbligazionaria, come vedremo tra poco. Servirebbe trasparenza, ma non c’è e i regolatori si guardano bene dal chiederla: è un cane che si morde la coda. 

Ma mentre Draghi parlava al Parlamento europeo, il membro del board della Bce, Benoit Coeure, parlava a un panel a Monaco di Baviera, appuntamento dal quale ha di fatto aperto il vaso di Pandora della crisi in atto e dell’impotenza dell’azione della Banca centrale. Rispondendo a un giornalista sulle prospettive del Qe, Coeure ha infatti dichiarato che «in teoria è possibile per la Bce l’acquisto di titoli azionari, ma questo oggi è ben lontano da ciò che abbiamo bisogno di fare. E stato fatto dalla Bce of Japan, ad esempio, ma non è chiaramente in discussione oggi. Non ne abbiamo mai discusso». Può essere, ma ora quel concetto è stato sdoganato con la stampa, ha fatto capolino: tanto più che, incalzato sulla durata del programma di stimolo, Coeure ha dichiarato che «le politiche non convenzionali non possono durare per sempre, quando vedremo l’inflazione tornare in maniera stabile e sostanziale attorno al 2%, cominceremo a limitarle. Ma l’inflazione oggi è ancora molto bassa». 

Ma come vi dicevo, ci sono rischi connaturati alla situazione attuale di cui non si parla. Con i fondi pensione di mezzo mondo che stanno riallocando fondi verso il mercato equity nel tentativo disperato di chiudere i gap di finanziamento a causa dei tassi ultrabassi delle Banche centrali e con le banche commerciali bloccate dalle regolamentazioni restrittive nei confronti delle detenzioni a bilancio, ecco che le economie più indebitate dell’eurozona – Spagna, Italia, Belgio e Francia – stanno cominciando a diventare clienti privilegiati e pressoché fissi degli hedge funds per le loro emissioni obbligazionarie: e non parliamo di poco, perché le quattro nazioni che ho appena citato hanno triplicato le loro allocazioni di debito presso fondi speculativi. Gente che oggi c’è ma domani? Quei quattro Paesi quest’anno hanno visto allocazioni di debito per miliardi verso gli hedge funds, un 13-17% del totale contro il 4-7% di solo tre anni fa, stando a dati ufficiali di Thomson Reuters. Addirittura per la Francia non esiste comparativo, perché non si era mai rivolta a fondi speculativi per le sue emissioni di debito. 

Per Damien Carde, responsabile della syndacation per il settore pubblico di Royal Bank of Scotland, «gli hedge funds stanno crescendo di importanza. Se devi portare una grande syndacation sul mercato, rappresenta sempre un qualcosa in più avere la comunità dei fondi a bordo con te». Ma se il denaro degli hedge funds è stato finora importante per aiutare a colmare l’order book primario delle emissioni, gli impatti di lungo termine in fatto di volatilità sul mercato secondario potrebbero essere disastrosi per un regione che è sopravvissuta con fatica alle diverse crisi del debito patite a partire dal 2007. Gli hedge funds, infatti, hanno un approccio di investimento molto attivo, operano quando anticipano la possibilità di un return interessante nel breve termine. Ma non appena vedono sparire quella prospettiva di guadagno, spariscono anche loro. 

I fondi potrebbero infatti operare trades sulla curva dei rendimenti, magari anticipando yields più alti nel breve termine oppure muovendosi solo sulla parte lunga della curva, il tutto in base a valutazioni empiriche su come potrà essere controllata l’inflazione nel lungo termine: ma quando decidono di chiudere le posizione, il loro aiuto svanisce e si tramuta in una seria complicazione. Perché se uniamo alla volatilità che possono innescare sui mercati attraverso una sell-off, il fatto che di shock politici l’Europa ne rischia di vivere almeno sei, sette da qui a fino 2017, capite che il rischio di una riedizione della crisi del debito 2010-2012 sale di parecchio. E con le banche imbottite di sofferenze contabilizzate non si sa a quale valore facciale, il rischio di un tonfo in piena regola è dietro l’angolo. Stiamo piazzando quasi un quinto delle emissioni di debito a lungo termine a hedge funds: si chiama disperazione.