State attenti a non cascare nel giochino che metteranno in atto da qui al 4 dicembre. E non mi riferisco ai toni ormai da trivio che vengono utilizzati da entrambi gli schieramenti per sostenere le ragioni del “Sì” e del “No”, segno dei tempi e della classe dirigente in circolazione, bensì all’allarmismo da quattro soldi che viene sparso a piene mani. Pensate davvero che il problema dell’Italia sia cambiare la Costituzione? Pensate davvero che un Senato di nominati dai Consigli regionali e l’abolizione del Cnel porteranno orde di imprenditori a investire nel nostro Paese, nonostante il debito pubblico, la crescita asfittica, le tasse insopportabili e la burocrazia opprimente? Se lo pensate, meglio per voi, ma attenzione a quanto rischia di accadere dopo il 4 dicembre, perché potrebbe essere il risveglio traumatico da un sogno che avete voluto vivere per evitare di guardare in faccia la realtà. 



Ieri Standard&Poor’s, agenzia che mi piace sempre ricordare non fu tra le più rapide e puntuali nell’accorgersi dell’elefante nella stanza chiamato Lehman Brothers, è tornata alla carica, dicendo che l’Italia non può permettersi una crisi politica: e perché mai, se è la nostra specialità dal Dopoguerra in poi superare crisi politiche con nuove crisi? Pensate davvero che la vittoria del “Sì” cambi qualcosa? Le priorità sono solo due: sopravvivere politicamente e riuscire a gestire l’aumento di capitale di Mps, per il resto il nostro Paese non guadagnerà e non perderà niente dal referendum. Pensate che quattro senatori in meno faranno sparire, come per miracolo, le sofferenze bancarie che hanno in pancia gli istituti di credito? I problemi sono ben altri. Ieri mattina lo spread Btp/Bund ha toccato quota 186, con il tasso del decennale salito al 2,08% dal 2,03% dell’apertura e dal 2,04% dell’ultima chiusura: è forse crollato il mondo? 



Certo, che c’è tensione per il referendum, ma è tensione auto-indotta da un lato ed eterodiretta dall’altro, tanto più che a spiegare quel movimento al rialzo che anche la scarsità dei volumi sul fronte cash, in particolare sul segmento a 10 anni. Inoltre, alla base del movimento c’era anche un fattore tecnico, cioè il roll del benchmark del decennale italiano, passato martedì da giugno 2026 a dicembre 2026 che rende qualche centesimo in più. Il problema è sostanziale e sta tutto nello scontro tra Germania, Commissione Ue e Italia. Il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, ha infatti duramente attaccato la scelta dell’organismo europeo di criticare il surplus tedesco all’8,5% (il massimo consentito è il 6% del Pil), dicendo che Bruxelles aveva sbagliato indirizzo e che erano altri i Paesi a cui fare le pulci. Ovviamente, si riferiva all’Italia. Matteo Renzi, il quale pur di vincere il referendum si è travestito da qualche tempo da euroscettico, ha subito rintuzzato l’accusa, dicendo che era proprio Berlino la prima destinataria delle critiche europee, stante il suo surplus che crea sbilanci a tutti gli altri Paesi, i cosiddetti Piigs in testa. La Germania, infatti, esporta con il turbo, ma non investe a livello interno, vedendo crescere ogni anno il suo tesoretto alla faccia di chi ne paga i costi. A confermarlo il fatto che mentre Piazza Affari arrancava zavorrata dal sistema bancario, Francoforte danzava sulla parità forte del risultato del Pmi composito della zona euro, sintesi di manifattura e servizi e considerato un barometro dell’attività del settore privato, salito a novembre a 54,1 da 53,3 di ottobre (53,3 le attese). Si tratta della lettura migliore di quest’anno e la più alta da dicembre 2015. 



Più nel dettaglio, il Pmi manifattura si è portato a 53,7 da 53,5 (53,3 le attese), mentre il Pmi servizi a 54,1 da 52,8 (53 le attese). «Il Pmi composito preliminare di novembre dell’Eurozona mostra la maggiore crescita su base mensile dell’attività del 2016, con abbastanza segnali che preannunciano un’ulteriore accelerazione futura», ha commentato Chris Williamson, capo economista di Ihs Markit, puntualizzando che «i dati dei Pmi sinora disponibili circa il quarto trimestre indicano un’espansione del Pil dello 0,4%, favorita dalla ripresa della crescita della Germania dello 0,5%. Anche la Francia sta godendo il suo momento migliore da inizio anno, con il relativo Pmi che ha segnalato, durante il quarto trimestre, una crescita del Pil dello 0,2-0,3%». Per l’esperto, poi, il «fattore particolarmente incoraggiante è l’aumento, il maggiore da maggio 2011, degli ordini in fase di lavorazione. Di conseguenza, un numero sempre maggiore di aziende sta incentivando la propria capacità produttiva, causando quindi il maggiore incremento dei livelli occupazionali osservato solo una volta durante il periodo di crisi finanziaria globale».

A questo punto, a detta di Williamson, «gli organi decisionali della Bce saranno contenti di assistere al forte intensificarsi delle pressioni inflazionistiche, guardando i PMI odierni». Infatti, «i prezzi medi applicati per beni e servizi, anche se a un tasso modesto, hanno mostrato il maggiore aumento in più di cinque anni. Inoltre, con gli indicatori del lavoro inevaso e dei tempi medi di consegna dei fornitori che mostrano come la domanda sia superiore dell’offerta, è probabile che la pressione sui prezzi possa intensificarsi ulteriormente nei mesi futuri». Il problema è che l’Italia non gode affatto di questa ripresa, visto che è costruita ad hoc per la Germania e il suo modello tutto basato sull’export e sul dumping di tipo cinese rispetto agli altri Paesi. Capite che non c’entra proprio nulla il Cnel o i quattro soldi che si risparmiano dal Senato non più organo paritario, quando si combatte in campo economico con un braccio legato dietro la schiena? 

E attenzione, perché mentre Renzi gioca a fare il Farage di turno dopo che il suo governo per 1000 giorni a detto di sì a qualsiasi richiesta di Bruxelles, rischia di passare sotto silenzio una data fondamentale: non il 4 dicembre e nemmeno l’8 con la riunione della Bce, visto che Draghi ha già detto che il Qe andrà avanti oltre il marzo prossimo, ma l’11 dicembre. Quel giorno scadono infatti i 15 anni dalla richiesta cinese all’Ue di riconoscimento come economia di mercato: se per caso Bruxelles non si darà una svegliata nel rinnovare i dazi che andranno a cadere, l’Italia verrà invasa da prodotti cinesi a costo zero e, ad esempio, la nostra industria dell’acciaio è destinata a morire. 

La Commissione europea ha già varato dazi provvisori su tubi senza saldatura, di ferro o acciaio, a sezione circolare, ma occorre alzare un muro decisamente più alto, perché se anche si eviterà l’invasione, la Cina con la sua sovra-produzione elevata a modello di sviluppo (altro che transizione alla società dei servizi e alla domanda interna) sta importando deflazione ai massimi da cinque anni, di fatto rendendo ancora più complicato il lavoro della Bce sul fronte espansivo. Pensate che un “Sì” o un “No” risolvano queste questione di fondamentale importanza per la nostra economia e la nostra crescita? Di più, pensate che cambierà qualcosa, se oltre a combattere il dumping cinese dobbiamo fare fronte anche al dumping interno della Germania, la quale se ne frega delle indicazioni della Commissione Ue e va avanti imperterrita con la sua politica di surplus? 

Anche l’ultimo dato, quello di settembre, non lascia alcun dubbio: la Germania continua a macinare ingenti avanzi nella propria bilancia commerciale. Sebbene in lieve calo rispetto ad agosto (21,6 miliardi di euro), il dato di settembre (21,3 miliardi) conferma il trend di lungo periodo. Anzi, in base alle ultime stime, la Germania dovrebbe registrare quest’anno il più grande surplus delle partite correnti in tutto il mondo. In pratica, con circa 270 miliardi di euro, il surplus della Germania si pone al primo posto assoluto a livello mondiale, precedendo sia la Cina che il Giappone. Ma forse non tutti sanno che non è stato sempre così. Negli anni ’90, il conto corrente tedesco era in deficit, mentre il surplus nel corso degli anni ’80 viaggiava su una scala molto più modesta: il continuo e crescente surplus ai nuovi massimi è un fenomeno degli anni 2000, cioè – guarda caso – dopo la nascita dell’euro. 

E che cosa ha determinato questo cambiamento? Guardando tutti i fattori, la mancanza di investimenti da parte delle imprese tedesche è il fattore principale: un fenomeno che spiega più della metà dell’aumento del surplus delle partite correnti. Invece di prendere in prestito risorse per effettuare nuovi investimenti (come accaduto durante gli anni ’90), le aziende tedesche sono diventate risparmiatrici nette negli anni 2000, beneficiarie di una moneta costruita a immagine e somiglianza del marco e divenuta distruttrice delle economie più deboli e concorrenti. A vostro modo di vedere, è questo il problema o l’abolizione del Cnel? 

Al padiglione 10 della Fiera di Roma dall’altro giorno sono presenti 120 aziende iraniane arrivate in Italia per il loro primo road-show all’estero dal 1979: business, niente politica. Per l’Italia, l’opportunità è enorme: nei primi sei mesi dell’anno il nostro export verso la Repubblica islamica è salito a 1,1 miliardi di dollari, il 60% nella meccanica. Per non parlare dei ricchi memorandum di intesa firmati dai nostri campioni durante la visita di Stato dello scorso gennaio: dal gasdotto di Saipem (4,5 miliardi di euro) alle infrastrutture del Gruppo Gavio (4 miliardi), dagli impianti siderurgici Danieli (quasi altrettanti), alla fornitura di velivoli Atr-Finmeccanica (400 milioni). Ora tutto è tornato a rischio con l’elezione di Donald Trump, il quale – alla faccia del non interventismo estero – ha già detto che la sua priorità sarà smantellare l’accordo sul nucleare con Teheran, di fatto riaprendo le porte alle sanzioni. E l’Europa cosa ne pensa? Silenzio totale, tutti in ordine sparso, Mogherini non pervenuta. 

Votate quello che volete il 4 dicembre, ma non fatevi prendere in giro: il nemico del Paese non è il bicameralismo paritario, sono Ue e Germania. Le aziende iraniane, a Roma, sono venute in massa e con le tasche piene di soldi anche se non sono certe che il Cnel sparirà davvero. Fatevi una domanda. Seria.