Davvero il voto del 4 dicembre si giocherà sui quesiti referendari? O l’esito dipenderà dal maggior o minor indice di (s)gradimento del premier Matteo Renzi? E sarà determinante la paura del flusso dei migranti come lasciano intendere tante cronache dall’Italia profonda? È facile rispondere che il voto sarà anche la risultante di questi fattori, forse necessari, senz’altro non sufficienti a tracciare il quadro delle tensioni percepite. Ma non vanno trascurati altri ingredienti non meno importanti. Ne indichiamo un paio, non meno importanti.



1) Crisi del debito. “I rischi di una correzione di prezzo sui mercati si sono intensificati, in parte a causa dell’incertezza politica e dei previsti cambiamenti di politica negli Stati Uniti”. È quanto scrive la Bce nel Rapporto sulla stabilità finanziaria nel quale si sottolinea ”la possibilità di ulteriori cambiamenti di prezzo scatenati da eventi politici nelle economie avanzate, a fronte di vulnerabilità già presenti nei mercati emergenti”. In realtà, il fenomeno ha già preso corpo dopo l’elezione di Donald Trump. Non solo l’America aumenterà i tassi a metà dicembre, come previsto ancor prima del voto. Ma gli ultimi dati, molto brillanti, in arrivo dall’economia a stelle e strisce (vendita delle case esistenti ai massimi da 13 anni, Wall Street ai massimi), dimostrano che i mercati sono già convinti che la Trumponomics provocherà un robusto flusso di capitali verso gli Usa per finanziare i piani del neo presidente. Il risultato è un deflusso di capitali dall’Europa (dollaro in calo in 13 delle ultime 14 sedute di Borsa) che indebolisce i titoli dei Paesi più deboli, a partire dai Btp (spread ai massimi dal febbraio 2015). È un fenomeno generale, ma le conseguenze per il Bel Paese sono senz’altro più gravi: il rialzo dei tassi implica un aumento dell’onere del finanziamento del debito, complicando i già precari piani della finanza pubblica. Non meno importanti le ricadute sui bilanci delle banche, che ancor oggi hanno in deposito circa 400 miliardi tra Bot, Btp e altri titoli di Stato. Il trend, insomma, potrebbe innescare una crisi di credibilità del Paese cui probabilmente la Bce farà fronte solo a fatica: Mario Draghi, infatti, sente sul collo il pressing dei falchi di Berlino. Il rischio è di dover correre presto ai ripari. Una bella ipoteca sul futuro che già si fa sentire.



2) Lo stress delle banche. “Siamo di fronte a un disastro sociale perché colpisce più di tutti le face deboli”, commenta Pierre-Henri Conac, professore di diritto commerciale dell’università del Lussemburgo, membro dell’Autorità di controllo delle Euroepan Securities and Markets. Il giudizio pubblicato sul Financial Times riguarda il default delle due banche venete, la Popolare di Vicenza e Veneto Banca. È un tema ben noto, destinato a occupare ancora per molto tempo le pagine dell’economia dei media. Non fosse che per il costo sopportato a fronte delle sofferenze e per lo scontato prezzo da pagare per garantire un futuro agli istituti in attesa che qualcuno ne rilevi attività e passività. Ma l’emergenza finanziaria ha ormai relegato in secondo piano le sofferenze psicologiche e materiali dei risparmiatori “traditi” che si ritrovano pochi spiccioli a fronte di azioni pagate a peso d’oro. Una sorta di Lehman Brothers del Nord-Est che non ha avuto finora una risposta adeguata: solo un banchiere, Vincenzo Consoli, agli arresti domiciliari, nessun rappresentante delle Authority di controllo, Consob e Banca d’Italia, chiamata a rispondere per una vigilanza troppo blanda o inesistente. Ma i guasti alla credibilità del sistema, così com’è già avvenuto per Popolare dell’Etruria e per le perdite delle azioni di Monte Paschi, sono ancora più gravi.



Non siamo di fronte alle conseguenze di uno scandalo finanziario o all’ingordigia di qualche speculatore, bensì al risultato dei limiti della “banca del territorio” così come è degenerata nel corso dei decenni: banchieri che fondano il proprio potere sulle clientele, giornali che abdicano al ruolo di vigilantes per conto dell’opinione pubblica, politici abituati a chiedere. Infine, operatori economici che da troppo tempo sono soliti rischiare i denari prestati (cioè dei depositanti) invece di quelli propri e per questo sensibili alle pressioni di sindacati, associazioni e talvolta anche della Chiesa. Il risultato, in termini macro, è un’economia spesso popolata da aziende zombie, ancora in piedi per una malintesa carità che sottraggono risorse a iniziative nuove. In termini politici, una situazione destinata a pesare in maniera drammatica sia sui risparmiatori che sui lavoratori non garantiti, ormai di gran lunga i più numerosi. Per un giorno elettori, probabilmente poco interessati all’abolizione dello Cnel, ma assai arrabbiati con un Paese che del risparmio non si occupa se non in maniera episodica, burocratica e inefficiente. Ancor oggi esistono banche non quotate che hanno collocato i titoli presso decine di migliaia di risparmiatori, con il recente assenso di Banca d’Italia e della Consob: potrebbero essere le prossime Popolare di Vicenza. 

Insomma, la rabbia di risparmiatori e di contribuenti ha più di una spiegazione. Certo, non c’entra nulla con il referendum. Ma gli elettori hanno poche occasioni per sfogare le proprie frustrazioni e il rifiuto per un ritratto falsamente positivo della congiuntura. 

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