Comincio a pensare che ci piaccia essere succubi, subalterni, quasi un po’ servi. Ma soprattutto ciechi, incapaci di leggere la realtà perché obnubilati o dall’ideologia o dalla fallacia di interpretazione. Mi spiego meglio. Da giorni la Germania sta lanciando segnali chiarissimi di messa in discussione dell’attuale status europeo, attacchi duri e diretti come non ne abbiamo mai conosciuti: ci siamo chiesti il perché? Ieri, ad esempio, è stato Jens Weidmann a correre per dare man forte al governo tedesco. In un’intervista al quotidiano Handelsblatt, il presidente della Bundesbank ha dichiarato che la Commissione europea dovrebbe essere sollevata dal controllo sui bilanci statali perché è troppo politicizzata: «Non penso che una Commissione che interpreta in maniera così politicizzata il proprio mandato come quella in carica sia la più adatta ad assicurare la sorveglianza dei bilanci in Europa». Più che un siluro, un missile a testata nucleare.
Il motivo dell’indignazione di Weidmann è presto detto: nei giorni scorsi Bruxelles aveva osato raccomandare alla Germania di investire di più per sostenere la ripresa europea, visto che dispone di uno stratosferico surplus della bilancia commerciale dell’8,8%, questione di cui vi ho parlato due giorni fa. Il ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, parlando al Bundestag, aveva replicato che «le raccomandazioni della Commissione vengono rivolte a interlocutori sbagliati», facendo un chiaro riferimento a Italia, Spagna e Portogallo (la Grecia, ormai, non è più nemmeno contemplata in Europa dai tedeschi, dopo che ci hanno fatto i loro porci comodi). Non vanno infatti indirizzate ai tedeschi i cui investimenti, in dieci anni, «sono cresciuti del 3,9% all’anno, mentre la media dell’eurozona è sei volte più bassa (0,7%)» e che sono serviti a finanziare, tra l’altro, i costi dell’accoglienza dei richiedenti asilo.
Verrebbe da chiedere a Schaeuble se ci è o ci fa, perché quell’aumento degli investimenti è dato dal fatto che la Germania, con un euro fotocopia del marco, ha potuto superare in agilità la crisi, mentre gli altri Paesi europei hanno vissuto un triennio da tragedia, quindi la discrepanza è data da una distonia ontologica: la Germania gioca con la sua moneta, gli altri con una moneta non loro. Per quanto riguarda i profughi, poi, non penso sia stato il dottore a imporre alla Merkel di farne entrare 1,2 milioni nel 2015 e mi pare che le bastonate che la Cdu ha preso alle ultime amministrative – Sassonia e Berlino – certifichino l’harakiri compiuto dal governo con quella scelta scellerata e tutta ideologica.
Poco male, siamo abituati al fatto che i tedeschi possano dire ciò che vogliono senza che nessuno abbia il coraggio d proferire verbo. Sempre Weidmann ha detto di essere d’accordo con Schaeuble, forse in nome della famosa indipendenza della Bundesbank dal governo, sottolineando che il controllo dei bilanci statali dovrebbe essere affidato a «un’istituzione indipendente che non sia soggetta a nessun ovvio conflitto d’interesse», forse riferendosi al Fondo salva-Stati Esm, guidato dal tedesco Klaus Regling, indicato tre giorni fa proprio da Schaeuble. Beh, diciamo che ai tedeschi piace vincere facile.
Ma come mai questo nervosismo? Semplice, non hanno più il loro potente padrino politico. A dispetto di quanto si pensasse, infatti, l’elezione di Donald Trump non ha affatto portato con sé le piaghe d’Egitto, tanto che il Dow Jones ha sfondato il record dei 19mila punti questa settimana: se davvero l’arrivo a Pennsylvania Avenue avesse spaventato i mercati, allora la legacy obamiana sull’Europa, sostanziatasi con il sostegno a tutto tondo al governo Merkel espresso due mercoledì fa nel vertice di commiato a Berlino, avrebbe avuto un senso e un peso politico. Ma non è andata così e Trump non pare uomo interessato troppo ai destini d’Europa, vista anche la reazione poco diplomatica e irrituale di Jean-Claude Juncker alla sua elezione.
A Berlino manca protezione politica proprio nel momento di maggiore instabilità per l’Ue, dopo la Brexit e in attesa del referendum italiano e il ballottaggio delle presidenziali austriache del 4 dicembre. L’anno prossimo, poi, politiche in Germania e Olanda e presidenziali in Francia: praticamente, la possibile fine dell’Ue come la conosciamo attraverso le urne. Berlino non è più abituata ai consessi democratici e al suffragio universale, è abituata a comandare a bacchetta e ad avere in Washington l’amico grande e grosso che, se serve, interviene in tua difesa: ora il Re è nudo e ha paura di doverlo ammettere e quando la Commissione Ue ha vestito i panni del bambino che grida al mondo di come le pudenda del monarca siano in vista, ecco che Schaeuble, il vero capo in Germania, ha reagito come un animale ferito. E ieri, è arrivato il potente capo della Bundesbank a dargli man forte. Segnale di debolezza, invece.
Ma pensate che qualcuno lo abbia colto, nel nostro straordinario ma politicamente disgraziato Paese? No, sono troppo intenti a farsi la guerra come i Montecchi e i Capuleti sul referendum, un nulla istituzionale divenuto spartiacque solo perché da esso dipende il futuro politico di Matteo Renzi e della sua eterogenea corte dei miracoli. Non capiscono che questo è il momento di creare un asse con quei Paesi che finora hanno patito l’egemonia politico-economica della Germania in Europa, non hanno capito che oggi come non mai la Merkel è debole e spaventata dai sondaggi che arrivano settimanalmente in vista del voto. Lo stesso vale per le istituzioni europee, totalmente spiazzate dall’esito del voto Usa, spaventate da quanto potrebbe accadere in Austria in caso di vittoria di Norbert Hofer al ballottaggio e, soprattutto, dall’esito delle urne francesi e tedesche del prossimo anno: paradossalmente, la più transnazionale delle istituzioni, la Commissione Ue, dipende in toto dagli equilibri di potere interni agli Stati, esattamente come qualsiasi organo non eletto al mondo.
Se esiste un momento storico in cui si può cambiare l’Europa è questo, altra occasione non sarà concessa, perché questo nervosismo tedesco pare il preludio a un addio generale e, temo, non troppo controllato al progetto europeo in toto. Il 5 dicembre, il giorno dopo il voto in Italia e Austria, si terrà la riunione dei ministri delle Finanze europei e sul tavolo ci saranno parecchie priorità, dal Brexit alla Grecia, passando per il budget Ue su cui Renzi ha finto di mettere il veto e arrivando alle manovre dei vari Stati, con il nostro Def destinato a diventare il bersaglio su cui Schaeuble scaglierà le sue freccette avvelenate.
Da soli – e magari con un vittoria del “No” sulle spalle – siamo destinati al massacro, il ministro Pier Carlo Padoan è il primo a esserne conscio. Se invece riuscissimo a fare fronte comune con l’area mediterranea – Spagna, Portogallo e Grecia – potremmo almeno avere una leva da contrapporre al rigorismo tedesco, visto che l’alleato storico di Berlino – la Francia – in fatto di sforamenti dei conti e di credibilità politica è pari a zero, soprattutto dopo la vittoria di Fillon al primo turno delle primarie del centrodestra. Lo ripeto ancora, a costo di essere bollato come un inciucista: mai come oggi l’Italia avrebbe bisogno di un governo risoluto e di un’opposizione responsabile e – diciamo – patriottica, perché ora il fianco della Germania è scoperto e si potrebbe cercare di ferirla. Perché chi si crede invincibile, esattamente come Ivan Drago in “Rocky 4”, al primo taglio che sanguina, si spaventa. Invece temo che andremo avanti a colpi di insulti e contumelie per un “Sì” o un “No” che non contano nulla, se non a garantire qualche mese di permanenza in più a Palazzo Chigi per Matteo Renzi.
Già, perché come ha scritto Michele Ainis su Repubblica ieri, nel 2017 si andrà comunque al voto, anche se vincerà il “Sì”: scordiamoci la legislatura e la sua scadenza naturale. Perché? Ve lo spiega Ainis: «Quando si vota? Dipenderà dal referendum, dicono tutti gli analisti. Se vince il No, elezioni anticipate; altrimenti la legislatura toccherà la sua scadenza naturale, nel 2018. Errore: si voterà comunque in primavera. Anche se vince il Sì, soprattutto in questo caso. Per una ragione politica: a quel punto, il presidente del Consiglio passerà all’incasso, come farebbe chiunque altro nei suoi panni. Per una ragione istituzionale: si può tenere in vita, per un paio d’anni ancora, un Senato abrogato dal voto popolare? Sarebbe come se nel 1948, dopo l’entrata in vigore della Carta repubblicana, si fosse lasciato sopravvivere il Senato regio, come un fantasma intrappolato nella città dei vivi. Sicché mettiamoci tranquilli: il voto del 4 dicembre è solo un antipasto. E il pasto cuoce già nel forno. Speriamo di non farne indigestione».
Non sarebbe meglio, a questo punto, cercare di guadagnare peso politico in Europa, visto che è la nostra controparte in materia economica, invece che scannarci come cani rabbiosi? A voi la riflessione.