Nelle cancellerie occidentali (come si diceva una volta) e sui mercati (come si dice oggi) si è diffusa l’idea che l’esito del referendum di domenica prossima rappresenti uno spartiacque per valutare il rischio Italia: se vince il sì Matteo Renzi andrà avanti con il suo programma riformatore, se vince il no il Paese ricadrà in una fase confusa e politicamente instabile. C’è del vero, naturalmente, in questa analisi, ma non basta. Il rischio Italia, infatti, viene valutato sulla base di tre altri indicatori: la crescita, il debito e la crisi bancaria. Tre variabili strettamente collegate, ma che hanno anche una loro autonomia.



Più crescita è la medicina che cura ogni male, sostiene Renzi. Finora non è stata disponibile, ma dal 2017 i dottori di palazzo Chigi promettono di averne a sufficienza. Con una crescita del 3% in termini nominali (un punto di inflazione e due punti di Pil reale), il debito comincerebbe a scendere e le sofferenze bancarie si ridurrebbero. Giusto, ma questa è una condizione necessaria, non sufficiente. Il problema del debito riguarda non solo il suo rapporto con il Pil, ma il suo ammontare in termini assoluti. Quanto alle banche, la recessione non basta a spiegare una crisi che è strutturale.



Prestiti marci e stretta al credito hanno bloccato un sistema il quale, in realtà, aveva bisogno da tempo di essere riformato. Le banche italiane non solo hanno poco capitale e tanti non performing loans, ma sono troppe, troppo piccole, inefficienti. Il loro problema è che non fanno utili senza i quali non c’è aumento di capitale che tenga. Un numeretto diabolico spiega la situazione meglio di ogni altra cosa: si chiama return on equity, tasso di remunerazione del capitale, e si ottiene dividendo l’utile netto per i mezzi propri. JP Morgan sta sopra il 10%, Citigroup e Morgan Stanley superano quota 7%, là dove si collocano anche SocGen e Bnp, Intesa Sanpaolo è al 5%, Unicredit al 3,7%. E stiamo parlando delle due maggiori banche italiane, non di Etruria e nemmeno di Mps.



Il Governo non ha capito il problema o ha chiuso gli occhi perché è troppo difficile da affrontare. Bisogna essere pronti ad accettare tensioni sociali e maggiori spese per gli ammortizzatori, ma anche il rimescolamento degli equilibri là dove risiede il potere economico, cioè in un sistema bancario gestito seguendo molto spesso logiche clientelari, se non vere e proprie priorità politiche.

Il Governo risponde ricordando la riforma delle banche popolari. Senza dubbio è una misura giusta che doveva essere presa ben prima della crisi del 2008. Ma anch’essa non basta a risolvere la mala gestio come alla Popolare di Vicenza. Né bastano le fusioni: mettere insieme più debolezze non crea una forza. Pier Carlo Padoan può obiettare che le cose sarebbero state diverse se la Unione europea non avesse bocciato la bad bank. Anche questo è vero ed è bene indagare meglio sulle responsabilità della grave débacle italiana. Ma la bad bank avrebbe alleggerito le banche del peso che le sta schiacciando, non le avrebbe trasformate in good banks.

Il sistema creditizio ha bisogno di cambiare il proprio modello. Finché si poteva contare su una differenza tra tassi attivi e passivi di 3-4 punti, c’era grasso per tutti. Oggi non è più così. E occorre affrontare una riconversione produttiva non diversa da quella dell’industria manifatturiera: innovazione tecnologica, applicazione in dose massiccia di internet, riduzione degli sportelli e del personale, aumento della dimensione media, specializzazione nei servizi ad alto valore aggiunto, e via dicendo. Finora si è cercato di rinviare la resa dei conti. Guadagnare tempo è importante in tempi di crisi acuta, sia chiaro, ma solo se si sa come utilizzare il tempo.

Il Governo è intervenuto tappando i buchi a mano a mano che si aprivano. Il caso del Monte dei Paschi è la prova provata di questo atteggiamento difensivo. Anche il fondo Atlante, nato con le migliori intenzioni, ha seguito la logica sbagliata: aumentare il capitale in banche improduttive significa gettare via i quattrini. Sarebbe stato meglio vincolare gli interventi a una profonda ristrutturazione degli istituti. Alessandro Penati potrebbe ribattere che era questa la sua intenzione, ma così non è avvenuto, e oggi è azionista unico di banche senza mercato. Lo stesso vale per le quattro banchette del Centro Italia. C’è davvero chi crede che ci sia una fila di pretendenti i quali attendono solo di sapere come finirà il referendum?

Oggi ci troviamo di fronte al paradosso che sono appetibili i crediti marci (se adeguatamente svalutati), non le banche che li hanno concessi. Se vince il no sarà difficile cambiare direzione perché richiederebbe un governo forte e decisionista; ma se prevale il sì siamo sicuri che i vincitori avranno il coraggio di correggere i propri errori?