Uno dei miei chiodi fissi – come ho scritto tante volte – è riflettere sul modo di essere e di lavorare a partire dalle prospettive aperte dalle nuove tecnologie: è semplicemente perché sono convinto che siamo all’alba di una rivoluzione, in un momento di transito, dove il vecchio sta più o meno velocemente scomparendo e non si vede ancora pienamente il nuovo. E questa, pur essendo un’avventura affascinante, può spaventare soprattutto quelle generazioni come la mia (46 anni), che si trovano in una sorta di “terra di mezzo”, troppo giovani per smettere e troppo vecchie per ricominciare.
Le analisi di Zygmunt Bauman sulla società dei consumi (cioè sulla società tout court) raffigurano l’assenza di stabilità, o secondo una sua celebre espressione la “liquidità” come pilastro; al suo interno le cose sfumano una nell’altra: lo stesso termine “cosa”, che evoca la stabilità dell’essere nella sua profondità metafisica, non è nemmeno più utilizzabile.
“Nella Silicon Valley – scrive in “Consumo, dunque sono”- nel 1997 iniziò silenziosamente a diffondersi un nuovo termine: zero drag, resistenza zero. Questa espressione, che originariamente indicava il movimento privo di attrito di un oggetto come un pattino o una bicicletta, è stata poi usata dai lavoratori che cambiano facilmente attività, indipendentemente dagli incentivi economici. Più recentemente tale termine ha assunto il significato di svincolato o senza obblighi. Un’azienda dot.com potrebbe elogiare un lavoratore dicendo che è a resistenza zero, per far capire che egli è disponibile ad assumere compiti fuori dall’ordinario, a rispondere a richieste urgenti o a trasferirsi in qualsiasi momento”.
Le nuove tecnologie hanno accelerato enormemente questi processi, non soltanto sul piano della ricerca scientifica, che è sorprendentemente avanti. Nell’ambito del progetto “goal robots”, ad esempio, condotto da studiosi italiani, il Cnr affronterà la sfida più importante per l’intelligenza artificiale, cioè quella di creare robots che possano imparare, dotati di un livello di adattabilità simile a quella dell’essere umano. Oltre alle nuove frontiere teoriche, ci sono segnali, per così dire, molto più quotidiani di un nuovo sistema di vita che si va sviluppando. Facciamo alcuni esempi banali.
Chi di noi non ha un tablet, uno smartphone, o un ereader? Si scaricano libri e, sfruttando l’ampia memoria e la leggerezza tipica del supporto, si parte con la lettura: si legge ovunque, non più solo seduti comodamente a casa o al bar, ma sui mezzi, camminando per strada… Tuttavia non si può stampare, né conservare il libro fuori dallo strumento informatico, né regalarlo a qualcuno, se non condividerlo per poco tempo. Il punto è che il libro (o il prodotto musicale) non è venduto, ma dato in licenza, come riportato tra le righe di lunghe condizioni contrattuali che si accettano senza colpo ferire pur di averlo subito a disposizione sul proprio dispositivo.
La biblioteca digitale è un segno tra tanti del superamento del concetto di proprietà, la più solida delle caratteristiche della società di un tempo – della “società dei produttori” direbbe Bauman – oltre che uno dei pilastri del diritto privato occidentale. Il diritto di “godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo” (nozione civilistica di proprietà) non spetta più alla singola persona che acquista il bene, ma all’azienda informatica produttrice, che potrà decidere con assoluta libertà se mantenerlo, sostituirlo o anche ritirarlo definitivamente dal mercato e quindi dalla biblioteca virtuale, con grande perplessità di chi lo credeva suo.
Certamente il diritto si evolverà e si troveranno nuove norme anche a tutela dei consumatori, ma nel frattempo guardiamo al nocciolo della questione: “beni liquidi” al posto dei tradizionali “beni solidi” riflettono una mentalità lontana anni luce da quella a cui eravamo finora abituati.
Una delle evoluzioni più radicali della mobilità è senz’altro la diffusione del car sharing, che soprattutto nelle grandi città consente un accesso capillare, al punto che l’auto può non essere più un bene come lo era in passato, quando non se ne poteva proprio fare a meno per lavoro e famiglia. Espressioni come “la mia macchina” o “cambiare macchina” sembrano destinate a tramontare, quando è disponibile una nutrita flotta di mezzi a un prezzo onnicomprensivo più o meno accettabile e soprattutto senza problemi di congestion charge e di parcheggio. La mobilità condivisa risponde adeguatamente al carattere dell’uomo contemporaneo, in perenne movimento. Chi tira le fila è sempre l’ente gestore del servizio che, oltre ovviamente a stabilire le tariffe, può dettare nuove regole dall’oggi al domani, decidendo, ad esempio, di ridurre l’area operativa cittadina e di applicare in modo arbitrario una maggiorazione economica all’uso delle auto in periferia, addebitando così i costi di una più efficiente dislocazione dei veicoli agli utenti stessi, senza preavviso, né limite.
Il potere decisionale tipico della proprietà corre il rischio di concentrarsi nelle mani di un’oligarchia sempre più ristretta, alla quale la gente dovrà obbedire in modo cieco, pena il decadere nella classe dei “cattivi consumatori”, non collaborativi al benessere economico collettivo e, pertanto, destinati inevitabilmente a essere scartati. Come all’interno di un fast food puoi connetterti a reti wireless liberamente: la possibilità di navigare senza ostacoli viene tranquillamente pubblicizzata per attirare clienti. Dopo circa 20 minuti, però, la rete ti espelle e se ricominci da capo la trafila della connessione, ciò avviene con un’incredibile lentezza. Il motivo è che ti stai fermando senza consumare. Non sei funzionale all’incremento del Pil. Diventi inutile.