Lo spread sembra tornato a far paura agli italiani. Proprio alla vigilia del referendum del 4 dicembre. C’è chi non nasconde di temere una vittoria del No per l’aumento del differenziale tra Btp e Bund che essa porterebbe, facendo così tornare a galla i ricordi dell’estate del 2011 e la crisi conseguente. Sul tema varrebbe però la pena fare un po’ di chiarezza.



Innanzitutto, la crisi che è arrivata in Italia dal 2012 non è direttamente attribuibile allo spread: è stata infatti la botta di austerità “garantita” dal Governo tecnico a portare sulle prime pagine le notizie sui record di fallimenti di imprese, sui suicidi tra artigiani e piccoli imprenditori, sulle chiusure dei negozi e sul balzo delle tasse (dice niente la parola Imu?). E non è stata questa politica suicida a far scendere lo spread come Mario Monti voleva far credere. Bensì gli impegni di un altro Mario, tal Draghi da Roma, sfociati nel celebre “whatever it takes” (luglio 2012) prima e nel Quantative easing (marzo 2015) poi, capace di portare il differenziale fin sotto quota 100 (novembre 2015). 



A meno di non voler credere che tal record negativo dello spread fosse dovuto alla presenza di Matteo Renzi a palazzo Chigi. Nel qual caso si dovrebbe spiegare come mai c’è stata l’impennata da poco più di 90 del dicembre 2015 ai 150 e passa di febbraio 2016. Nemmeno la “catastrofica” Brexit è riuscita a provocare “l’apocalisse dello spread italiano”. Se il fatidico 24 giugno veniva superata la soglia dei 160 punti base, dopo meno di due mesi il differenziale tra Btp e Bund si attestava a quota 115.

Ma allora perché lo spread in queste settimane filtra con “quota 180” avvicinandosi ai 190 punti base? Basterebbe chiedersi chi vende e chi compra i titoli di stato italiani, facendone oscillare il rendimento. Ma soprattutto ricordare chi è il “compratore di ultima istanza” del debito pubblico dell’Eurozona: ovvero la Bce. Con il Quantitative easing, gli acquisti di titoli di stato italiani dovrebbero essere pari a circa 7-8 miliardi di euro al mese. Chi ha una “forza di fuoco” capace di vendere quote superiori facendo quindi salire il rendimento dei Btp italiani? Difficile da dire. Più facile invece ritenere plausibile quel che Claudio Borghi Aquilini ha spiegato su queste pagine: se diminuiscono gli acquisti di titoli di stato è logico che aumenti il loro rendimento.



Se poi si vuol continuare a credere che lo spread salga per via del referendum italiano qualcuno spieghi a uno spagnolo come me perché proprio ora che, dopo quasi un anno di attesa, abbiamo un governo lo spread tra Bonos e Bund si sta avvicinando ai 140 punti base quando un mese fa era a 100. E se poi c’è il convincimento che l’instabilità politica di una vittoria del No il 4 dicembre possa far salire lo spread qualcuno mi dica come mai la Spagna, che è dovuta andare al voto due volte nel giro di sei mesi, non sia certo balzata sulle prime pagine dei quotidiani finanziari internazionali per problemi di spread e di economia. Anzi, al contrario si continua a parlare della crescita del suo Pil.

Se ancora pensate che una vittoria del No possa mettere “in fuga” gli investitori dai titoli di stato italiani fatevi una bella domanda: se aveste 10.000 euro li investireste in Btp decennali a poco più del 2,1% o in titoli di stato americani di pari durata che ora rendono il 2,4%? 

 

P.S.: Giusto per la cronaca, se al referendum vincerà il Sì, lo spread tra Btp e Bund non tornerà certo sotto i 150 punti base. Ma magari dopo l’8 dicembre sì.

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