Abbiamo dipinto la campagna elettorale per le presidenziali Usa come la più brutta, arrogante e volgare di sempre: è vero, è stata tale. Ma vogliamo parlare della nostra per il referendum costituzionale di domenica prossima? Vogliamo parlare dei toni e degli epiteti utilizzati? Vogliamo parlare del livello di intromissione estera che abbiamo dovuto subire? Una sola cosa è certa: ancora pochi giorni e, quantomeno, smetteranno le minacce e le previsioni di sventura e ci sarà la prova dei fatti, si potrà andare a vedere se quello giocato finora da mercati, politica e stampa è stato un bluff o meno.
Nel frattempo, ieri ci ha pensato il solito Financial Times a entrare in tackle scivolato nella campagna referendaria, evocando di fatto l’apocalisse per il settore più strategico e in sofferenza in casa di vittoria del “No”: quello bancario. Per il quotidiano della City, infatti, se il 4 dicembre gli italiani bocceranno la riforma «fino a otto banche italiane in difficoltà saranno a rischio fallimento», in quanto l’incertezza sui mercati allontanerà eventuali investitori per ricapitalizzarle. Stando al Financial Times, il quale cita le solite fonti ufficiali e bancarie di alto livello, gli istituti a rischio sarebbero otto: il Monte dei Paschi di Siena, tre banche di medie dimensioni (Popolare di Vicenza, Veneto Banca e Carige) e quattro piccole banche salvate l’anno scorso, ovvero Banca Etruria, CariChieti, Banca delle Marche e Cariferrara.
Ora, parliamoci chiaro: quelle banche sono messe male, il Financial Times non spara nel mucchio tanto per dire. È la facilità con cui si accomunano vittoria del “No” e rischio fallimento a essere falsa e un po’ in malafede, per due motivi. Primo, gli investitori che hanno a che fare con l’Italia da anni sanno che il nostro Paese è sì avvezzo alle crisi politiche, ma è altrettanto bravo e camaleontico a superarle, siamo i campioni del mondo degli esecutivi di scopo e unità nazionale. Quindi, Matteo Renzi non è l’ultima speranza prima del diluvio. Secondo, il problema di quelle banche non è un governo solido, ma la non solidità dei conti, in primis le sofferenze e i valori della loro iscrizione a bilancio: pensate che basti la vittoria del “Sì” per cambiare magicamente la situazione? Il governo, mi permetto sommessamente di sottolineare, è lo stesso che finora non è stato in grado di attrarre investitori e che ha dovuto varare un Fondo Atlante 2, visto che le disposizioni patrimoniali del primo sono finite subito.
Serve una soluzione strutturale, serve il paracadute della Bce per un’operazione drastica che metta in sicurezza, una volta per tutte, il sistema bancario italiano e le sue distorsioni: serve un piano da 50 miliardi e senza Bce e Ue, questo non sarà certo reso possibile dalla vittoria del “Sì”, tanto più che Silvio Berlusconi ha già detto che anche in caso di vittoria del “No”, Matteo Renzi dovrebbe restare al suo posto per guidare una stagione a tempo di riforme condivise. Qual è, invece, lo scenario prefigurato dal Financial Times? Fallisce il salvataggio di Montepaschi e crolla la fiducia in generale, «mettendo in pericolo una soluzione di mercato per le banche in difficoltà italiane, soprattutto se il premier Matteo Renzi si dimetterà causando il protrarsi dell’incertezza durante la creazione di un governo tecnico».
Un altro dei timori è che le eventuali difficoltà delle otto banche possano «minacciare l’aumento di capitale di 13 miliardi di euro di Unicredit, la prima banca italiana per asset e la sua unica istituzione finanziaria di rilievo, in calendario all’inizio del 2017». Su una cosa il quotidiano della City ha ragione, ovvero quando dice che «il nocciolo della questione è se la questione di Siena viene risolta o meno: con Siena risolta non sono preoccupato. Con Siena irrisolta, sono preoccupato». Se Mps dovesse fallire, continua il senior official citato dal Financial Times, tutto diventa possibile inclusa «una resolution delle otto banche», soprattutto se la vittoria del No dovesse portare alle dimissioni di Renzi e a un periodo di prolungata incertezza. A quel punto «un fallimento di massa degli istituti italiani potrebbe innescare il panico nel sistema bancario dell’eurozona».
Quando leggete notizie simili, però, ricordatevi sempre una cosa: sono scenari probabilistici sulla carta ma impossibili nella realtà, per il semplice fatto che l’Italia non è la Grecia o Cipro, è un Paese talmente sistemico che se si arrivasse al reale rischio di collasso del settore bancario sarebbe l’Europa a entrare subito e autonomamente in gioco, perché il domino italiano avrebbe come immediato elemento di contagio il sistema bancario francese, tutt’altro che sano e terribilmente interconnesso con quelle tedesco a livello di rischio di controparte. Se cadiamo giù noi, portiamo giù tutti. Deutsche Bank compresa.
Insomma, il Financial Times non dice proprio bugie, è che omette parte della verità, come spesso gli accade di fare. Non è infatti la prima volta che il quotidiano londinese usa toni allarmistici sulla possibilità di una vittoria del “No”. Il 21 novembre fu l’autorevole penna di Wolfgang Munchau a scrivere un editoriale nel quale si arrivava allo scenario estremo di un’Italia che, in caso di vittoria del “No”, avrebbe potuto addirittura dover abbandonare l’euro a causa della cascata di conseguenze politiche che avrebbe portato con sé la fine del governo Renzi. Ancora prima, il 27 giugno, all’indomani del referendum sulla Brexit, sempre Munchau preconizzava: «L’Italia sarà la prossima tessera del domino a cadere. Su riforme Renzi rischia come Cameron».
Quale sarebbe questo rischio mortale, se già la gran parte dell’opposizione è d’accordo con il fatto che il premier resti per dar vita a una stagione di riforme e alla riscrittura della legge elettorale per andare al voto il prima possibile? Certo, la vittoria del “No” sancirebbe l’apertura della guerra totale all’interno del Pd, ma, con tutto il rispetto, il destino dell’Italia è un po’ più importante di quello di Bersani o Cuperlo. Tanto più che sempre ieri, l’Ocse si è detta più ottimista sulla crescita dell’Italia nel 2017. L’organizzazione ha infatti rivisto, nell’outlook economico, la stima sulla crescita dell’economia italiana per il prossimo anno dallo 0,8% del rapporto di settembre allo 0,9%. Per quest’anno è, invece, confermata la previsione di un +0,8%, mentre nel 2018 è attesa un’espansione dell’1%. Certo, non parliamo di crescita cinese, ma, almeno, la spirale ribassista della stagnazione sembra abbandonata. Il tasso di disoccupazione, poi, dovrebbe scendere su base annua dall’11,5% all’11% nel 2017 e al 10,7% nel 2018, mentre l’inflazione armonizzata è vista in aumento dal -0,1% quest’anno allo 0,8% nel 2017 e all’1,2% nel 2018. E il debito pubblico, calcolato al 159,3% del Pil quest’anno, è stimato al 159,5% nel 2017 per poi tornare al 159,3% nel 2018.
In generale, «l’economia continuerà a espandersi in maniera moderata e le incertezze riguardanti il settore bancario e l’effetto della Brexit modereranno i consumi privati nel 2017, laddove nel 2018 la fine degli incentivi fiscali per le nuove assunzioni mitigherà la crescita dell’occupazione». Infatti, nonostante i miglioramenti nel mondo del lavoro, la performance dei consumi delle famiglie si è indebolita a causa della crescente incertezza e del calo della fiducia dei consumatori. Inoltre, l’alto ammontare di non performing loans e i dubbi sulla ripresa continuano a pesare sull’erogazione di prestiti da parte delle banche, ostacolando il recupero degli investimenti.
Ed ecco il vero punto: «Rinnovate turbolenze nell’area euro o un aggravamento dei problemi di bilancio delle banche potrebbero far risalire gli spread, aumentare i costi di finanziamento del debito e richiedere una stretta fiscale, mentre la crisi dei rifugiati potrebbe intensificarsi di nuovo, ponendo sotto sforzo le finanze pubbliche e la capacità di affrontare un afflusso maggiore di migranti». Per l’Ocse, «effetti negativi potrebbero derivare anche dalla Brexit e dal rischio di un’ondata protezionistica, dopo la vittoria alle presidenziali Usa di Donald Trump, che penalizzerebbe l’export verso i Paesi non Ue». Allo stesso tempo, però, «una vittoria dei sì al referendum del 4 dicembre renderebbe l’Italia più governabile e darebbe nuovo impulso alle riforme strutturali, snellendo il processo legislativo e chiarendo la divisione delle responsabilità tra il governo centrale e gli enti locali».
Anche qui un piccolo assist al governo, ma il nodo resta: per ripartire, l’Italia deve dar vita a due mosse. Primo, intervenire seriamente sul settore bancario, anche in sede Ue. Secondo, operare un taglio netto del cuneo fiscale che faccia ripartire in maniera ciclica la crescita dell’occupazione, finora stimolata solo da manovre una tantum come la decontribuzione o da pannicelli caldi, come i voucher. Per il capo economista dell’Ocse, Catherine Mann, «in tale contesto i governi devono sfruttare gli sforzi di consolidamento fiscale per effettuare quegli investimenti pubblici che rendano la crescita più inclusiva. Infatti, è stato proprio il crollo degli investimenti e degli scambi commerciali a limitare i miglioramenti dell’occupazione, della produttività del lavoro e dei salari».
Perché non sfruttare l’esito del referendum, qualunque esso sia, per dare vita davvero a un patto per l’Italia, facendo qualcosa per il Paese e mandando in soffitta i toni orrendi della campagna elettorale? Occorre pensarci, perché se anche il Financial Times carica i toni a pallettoni, di fondo l’analisi sulle nostre criticità bancarie è giusta: chi ha a cuore il bene del Paese e dei suoi cittadini, si faccia carico della questione, a partire da Mps. E senza dividersi ancora in base al colore della casacca, perché non possiamo più permettercelo.