A quanto pare, il messaggio inviato dalla Bce tramite Bankitalia sul nodo Banca Mediolanum è stato recepito: «La faccia in tv ce la metto solo se tra venti giorni il vantaggio del No sarà ancora consistente, e irrecuperabile, allora la vittoria sarà anche una mia vittoria». Parole e musica di Silvio Berlusconi sul referendum costituzionale, di fatto un’ammissione chiara di armistizio nei confronti del fronte del “Sì” e di Matteo Renzi in primis. La non belligerenza del Cavaliere è assicurata e, stando alla ricostruzione che Repubblica ha fatto di una chiacchierata tra Berlusconi e i suoi consiglieri più fidati, se così invece non sarà – ovvero se non ci sarà certezza matematica di vittoria per il “No” – meglio non rischiare e dileguarsi in una prudente dissolvenza mediatica. Anche perché non è solo mediatica l’incertezza che lascia trapelare sul referendum costituzionale il quartier generale di Villa San Martino: il conto alla rovescia corre veloce verso il 4 dicembre e il nodo ormai è politico. 



Tanto più dopo l’incontro al Quirinale con Sergio Mattarella di giovedì, nel corso del quale il leader di Forza Italia, pur ribadendo la linea del No, ha preannunciato che in ogni caso non chiederebbe le dimissioni automatiche di Renzi e che il suo partito darà comunque il suo contributo sulle riforme. Che avrà voluto dire? Si prepara a un sostegno esterno, a nuove larghe intese? A un Nazareno bis? Ma guarda un po’, è bastato mettere il bastoni tra le ruote a Banca Mediolanum (magari lasciando intendere un aiuto del governo nel dossier Premium-Vivendi) e il già scarso entusiasmo del Cavaliere è scemato del tutto. Ma c’è da capirlo, quello di fronte a noi è un nodo storico, un passaggio epocale non tanto e non solo per il referendum, ma per gli assetti di potere europei: chi resta tagliato fuori, è out per sempre. 



Nel fine settimana, poi, intervistato a Berlino da Maria Latella per Sky, anche il ministro degli Interni tedesco, Thomas de Maizière, si è sentito in dovere di esprimere la sua opinione sul referendum costituzionale del 4 dicembre: «Non spetta a me esprimere un giudizio sulla struttura sociale di un popolo. Quando la struttura parlamentare non è abbastanza efficiente, è il popolo a dover intervenire. Riconosco il coraggio di questo governo nel voler cambiare la Costituzione e la struttura decisionale di questo Paese. Potrà dare all’Italia un futuro migliore. Approvare un simile cambiamento per il futuro è una decisione coraggiosa». Dopo gli Usa, anche la Germania tifa per il “Sì”. Ma dalla Germania è arrivato anche altro, per l’esattezza il grafico a fondo pagina, il quale ci mostra come l’Italia sia subentrata alla Grecia come Paese che più probabilmente uscirà dall’eurozona, stando a un sondaggio mensile tra gli investitori diffuso il 1 novembre. 



I manager intervistati a ottobre dal gruppo di ricerca Sentix, con base a Francoforte, hanno attribuito all’Italia il 9,9% di possibilità di lasciare l’eurozona nei prossimi 12 mesi, rispetto all’8,5% della Grecia. È la prima volta che il nostro Paese è davanti ad Atene nel sondaggio avviato nel giugno 2012, anche se la percentuale è ben più bassa rispetto al 70% di probabilità di un’uscita ellenica registrata in quell’anno. Insomma, per i 1.039 investitori che sono stati interpellati tra il 26 e il 28 ottobre, il rischio Italia esiste. E sentite come ha commentato i risultati Daniel Lenz, strategist di DZ Bank: «Le preoccupazioni riguardanti l’Italia si concentrano sul referendum del 4 dicembre, nel quale gli elettori dovranno pronunciarsi sulla riforma costituzionale proposta dal premier Renzi rispetto a un ridimensionamento dei poteri del Senato e di quelli dei governi regionali. I sondaggi suggeriscono che il premier potrebbe perdere e questa sarebbe davvero una cattiva notizia. Visto che il Portogallo ha superato il test del rating con Dbrs e la Spagna ha un governo di minoranza, ora è l’Italia la sede del rischio europeo». 

E guarda caso, le voci di un rinvio – sia esso legato all’emergenza terremoto o al ricorso del costituzionalista Valerio Onida – si fanno sempre più insistenti: se i sondaggi non cambiano, perché non spostare il voto in primavera? D’altronde, lo hanno fatto anche in Austria con la scusa della colla per le buste del voto postale che non appiccicava, volete che a Roma qualcuno non riesca a tirar fuori un coniglio più o meno credibile dal cilindro per salvarsi la ghirba? 

Ieri poi è continuata anche la tensione sul nostro spread, salito fino a 160 punti base per poi ritracciare: a tal fine giova ricordare che ormai il differenziale che conta per chi opera sui mercati è quello tra Italia e Spagna, il quale lunedì ha toccato quota 41,4 punti base, il massimo dal 2012. Siamo nel mirino: nessuno è così pazzo da sparare, ma siano nel mirino, una mossa sbagliata e potremmo ritrovarci nel 2011 in un batter d’occhio. Tanto più che proprio ieri, mentre gli ottimisti imputavano i cali di Borsa e la tensione sull’obbligazionario al presunto sorpasso di Trump nei sondaggi e all’attesa per le decisioni serali della Fed sui tassi di interesse (i future sui Fed Funds indicavano meno del 20% di possibilità di una stretta, mentre si saliva al 68% per dicembre, ma vi ho già detto come stanno le cose da quelle parti), i mercati hanno guardato soprattutto agli indici PMI dei principali paesi dell’Eurozona. 

E, guarda caso, ha deluso il manifatturiero italiano: l’indicatore è sceso da 51 a 50,9 punti a ottobre, contro le attese per un miglioramento a 51,2. Risale invece il dato francese, che passa da 49,7 a 51,8 punti: l’economia transalpina passa nella zona di espansione, cioè oltre la soglia di 50 punti. Forte il risultato tedesco, da 54,3 a 55 punti. Alla fine, il PMI sul manifatturiero dell’eurozona è aumentato nel complesso ad ottobre al valore più alto in 33 mesi a 53,5, in salita da 52,6 di settembre e dalla precedente stima flash di 53,3. Si tratta, precisa Markit, del maggior tasso di miglioramento delle condizioni operative da gennaio 2014. Di più, in Germania il tasso di disoccupazione scendeva a ottobre al 6%, minimo storico mai toccato dalla riunificazione: il numero dei senza lavoro è sceso di 13mila unità a 2,662 milioni, stando ai dati dell’Agenzia federale del lavoro, contro le attese degli economisti per un calo più contenuto di 1.000 unità. 

Insomma, pare che in Europa vada tutto bene tranne che in Italia: segnali? Messaggi in codice? O la narrativa di Renzi ormai se la beve soltanto Padoan, per obbligo istituzionale e non perché ci creda davvero? «Il governo non farà alcuna richiesta di rinviare il referendum, ma qualora una parte della opposizione fosse disponibile a valutare un’ipotesi di questo genere», ha dichiarato martedì ai microfoni di RTL il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, lanciando il sasso nello stagno. Immediatamente, palazzo Chigi ha «smentito categoricamente» l’ipotesi di un rinvio, ma ormai la questione era sul piatto, con il più classico dei giochi delle parti tra premier e ministro più importante dell’esecutivo. 

Comunque andrà a finire, penso che abbiate capito il succo dell’intera vicenda: le decisioni che riguardano questo Paese e il suo futuro, sono prese altrove. Fateci l’abitudine, ormai siamo nel mondo sovranazionale delle Banche centrali onnipotenti e onnivore.