Buon compleanno, herr Draghi. Il 1° novembre 2011 il banchiere romano subentrava ai vertici della Bce a Jean-Claude Trichet, il governatore francese che, sotto la pressione della Bundesbank, aveva alzato i tassi in controtendenza rispetto alle altre banche centrali, accentuando così le difficoltà europee dopo lo scoppio della crisi di Lehman Brothers. Pochi mesi dopo, nel luglio 2012, per rompere il circolo vizioso che rischiava di stritolare l’euro, il numero uno della Bce lanciò l’ormai celebre whatever it takes per difendere la moneta unica. Da allora, nonostante le continue pressioni di una parte dell’establishment tedesco, Draghi è riuscito a sostenere l’unità del sistema, grazie a interventi mirati e robusti sulla liquidità, a vantaggio delle banche e delle necessità di finanziamento della finanza pubblica del Sud Europa. Una politica coraggiosa, resa possibile dalla “comprensione” di Angela Merkel, nell’attesa che l’Italia, assieme ad altri Paesi dell’area mediterranea, sviluppasse le riforme necessarie per mettere l’economia al passo in materia di produttività. 



Oggi, a tre anni dal congedo di super Mario, dobbiamo purtroppo prender atto che l’obiettivo è stato fallito: il rapporto debito/Pil italiano, nonostante l’ossigeno garantito da spese per interessi in netta discesa, lungi dal diminuire è cresciuto. Lo stesso discorso vale per l’ammontare della spesa pubblica o per la produttività, inchiodata dal 1995 a un aumento medio dello 0,3%, ovvero meno di un quinto della media europea che pure non brilla. Ci vorrebbe uno sforzo comune, un patto bipartisan, per affrontare questi nodi che riguardano tutti. Ma di questo non s’intravvede neppure l’ombra. Come da antica consuetudine.



Se il governo Monti o quello successivo di Enrico Letta avessero posto sul tappeto il tema del risanamento delle banche chiedendo (come ha fatto la Spagna) l’aiuto europeo in cambio di regole severe sul risanamento sotto la vigilanza di Bruxelles, buona parte dei problemi attuali sarebbero stati risolti alla radice. Ma nessuno se l’è sentita nemmeno di proporre una medicina del genere, troppo amara per le corporazioni (la Spagna ha sospeso la tredicesima agli statali per tre anni), ma soprattutto a banchieri all’apparenza invulnerabili, impegnati all’epoca a sostenere con forti investimenti in pubblicità che “il nostro sistema bancario è tra più solidi”.



La lezione non è stata compresa, come dimostra l’accanimento sulla sorte del referendum, che non cambierà, comunque vada a finire, il quadro economico del Bel Paese. O almeno non lo cambierà in meglio. Al di là delle varie opinioni, la vittoria del “No” sarebbe interpretata dai partner come la conferma che l’Italia non intende cambiar rotta rispetto alla deriva negativa degli ultimi vent’anni. Ma l’eventuale successo del Sì, lungi dal portare chissà quali buoni frutti, convincerà probabilmente Matteo Renzi che la strategia seguita, a suon di mance elettorali e di interventi disorganici, alla fine paga. In questa cornice non stupisce la diffidenza dell’Europa su Casa Italia o altre scelte del dopo terremoto: siamo bravi nel gestire l’emergenza, ma i furbi si sono rivelati finora più bravi a gestire il dopo. 

È soprattutto questa pessima nomea a complicare il cammino dei prossimi tre anni, quelli che restano a Mario Draghi prima di rientrare a Roma (prossima meta il Quirinale?). Mister euro non perde occasione per sottolineare la necessità di una politica espansiva per contrastare la deflazione e rilanciare la crescita. Ma l’opposizione cresce, in Germania e non solo. Le casse delle società tedesche scoppiano di denaro sonante, l’occupazione oltre Reno sale, togliendo pressione alla richiesta mentre aumentano stipendi e pensioni. Al contrario, la politica dei tassi bassi e dei rendimenti negativi presso la Bce mortifica gli interessi di banche e assicurazioni, spostando a destra il voto dei pensionati, come lamenta Wolfgang Schaueble. Fino a che punto Angela Merkel farà da scudo al banchiere italiano in vista delle prossime elezioni? E fino a che punto Francia e Spagna proteggeranno la linea di Renzi?

Draghi sa di muoversi su un terreno molto delicato. A dicembre, pur di ottenere l’allungamento del Qe da marzo a settembre, dovrà accettare l’avvio del tapering, cioè la riduzione quantitativa degli acquisti. Certo, la misura non colpirà i Paesi (vedi l’Italia) più bisognosi di nuovi acquisti. Ma verrà comunque introdotto un principio che potrebbe rivelarsi pericoloso. Intanto, i mercati hanno già preso atto che la situazione, già congelata dal Qe, è di nuovo in movimento: i Btp italiani, con la scomoda compagnia dei titoli greci, stanno aumentando il divario verso i Bund tedeschi, ma anche verso i Bonos spagnoli che ormai rendono poco meno di mezzo punto percentuale rispetto alla carta italiana.

Intanto, un po’ ovunque, i banchieri centrali stanno pagando il prezzo dell’impopolarità, nonostante la politica monetaria di questi anni abbia scongiurato il peggio. Ma a lungo andare il denaro a basso costo genera iniquità sociale, favorendo la speculazione finanziaria a danno dell’economia reale. È tutto da dimostrare che il protezionismo di Trump o l’isolazionismo inglese siano una terapia adeguata o, com’è più probabile, la premessa per nuovi disastri. Ma per ora il vento della politica sembra andare in quella direzione. Buon compleanno, caro Mario. Nonostante tutto.