Lo spread tra Btp e Bund continua a restare in zona 160 punti base. E non manca chi collega questo innalzamento dei rendimenti dei titoli di stato italiani all’incertezza sul referendum del 4 dicembre. Incertezza che si aggiunge ad altri dubbi sui mercati, come quelli relativi all’esito delle elezioni americane, alle mosse della Federal Reserve e della Banca centrale europea, senza dimenticare la decisione della Corte suprema di Londra che ha richiesto il voto del Parlamento sulla Brexit. Abbiamo fatto il punto della situazione con Luigi Campiglio, Professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano.
Professore, quanto il referendum costituzionale italiano sta realmente creando incertezza sui mercati?
In questo momento, il referendum di per sé, nelle sue implicazioni, di sicuro non è un elemento dirimente per i mercati. Basta ricordare l’osservazione del Financial Times, secondo cui il nostro Paese non ha bisogno di fare più leggi più in fretta, ma semmai di meno leggi fatte meglio. Direi che il caso della Legge Fornero è abbastanza eclatante in questo senso. Non ci serve quindi questo referendum, ma dovremmo applicare meglio le leggi che ci sono, magari sfoltendole un po’.
E allora perché i rendimenti dei titoli di stato italiani sono cresciuti così tanto, più di quelli degli altri paesi periferici europei?
C’è un dato vero di cui il referendum si presta bene a essere un elemento catalizzatore di aspettative non favorevoli sul nostro Paese: il fatto che non riusciamo a crescere. Non c’è solo l’ultima nota mensile dell’Istat a dirci che non si vedono “prospettive di accelerazione dell’attività economica negli ultimi mesi dell’anno”. Basta semplicemente ricordare che nel 2015, rispetto al 2010, il consumo medio pro capite in termini reali degli italiani è diminuito di 1.000 euro: peggio di noi ha fatto solo la Grecia. I mercati fanno quindi un semplice ragionamento.
Quale?
Quello che stanno dicendo i mercati è che l’Italia rischia di diventare l’anello debole dell’Europa. Un po’ com’era accaduto già con la Grecia, con la differenza che il nostro è un Paese più grande e più importante. E visto che con i tassi a zero non si fanno molti affari, si cerca di approfittare di una grande volatilità che può essere generata dall’incertezza.
Secondo lei, potremmo essere realmente l’anello debole dell’Europa?
La domanda che molti si fanno è se dopo il referendum della Gran Bretagna si potrebbe arrivare a una frantumazione dell’euro o a una sua riconfigurazione. Come già dissi in una precedente intervista, l’unica ipotesi che potrebbe dare un po’ di fiato è un’uscita della Germania dall’euro. Sarebbe però Berlino a pagare un prezzo per questa Europa a due velocità. Al di là di questo, possiamo immaginare una situazione del genere, ma non sotto la pressione dei mercati che scalpitano per disintegrare l’Europa insieme all’euro.
Ha accennato al referendum britannico, su cui ora pensa l’incognita del voto del Parlamento di Londra. Secondo lei cosa accadrà?
C’è un dato di cui nessuno parla, ma che invece pesa come un macigno. Se si fa la Brexit “dura”, l’avanzo commerciale della Germania subisce una batosta. Berlino ha infatti un importante surplus con due paesi: Stati Uniti e Gran Bretagna. E rischia di perdere il 20% del suo gigantesco avanzo commerciale. La mia personale previsione è che faranno di tutto, troveranno qualche marchingegno gattopardesco, per far finta di cambiare tutto ma non cambiare niente, in particolare sugli scambi economici.
La Germania intanto ha un’altra partita aperta, quella contro il Quantitative easing di Draghi. Secondo lei, gli acquisti di titoli da parte della Bce andranno avanti dopo marzo 2017?
Draghi è sotto tiro. E sempre di più si dice che i costi economici del Quantitative easing superano di gran lunga i benefici. Costi che consistono principalmente nei bassi rendimenti delle attività finanziarie, che penalizzano i risparmi tedeschi. La Germania è quindi fortemente critica con Draghi. Di certo non può “rovesciarlo” da un giorno con l’altro, anche perché si dice che il prossimo governatore della Bce sarà un tedesco, ma può accelerare la fine del Qe.
Molta incertezza c’è anche per le mosse della Federal Reserve…
L’aumento dei tassi Usa ci sarà. Se non avverrà a dicembre, credo che i mercati non la prenderanno bene. Il problema di fondo è che Janet Yellen sta cercando di portare in una situazione normale la struttura dei tassi negli Stati Uniti, ma ormai c’è un punto di crescente dibattito negli Usa, che si sentono sempre meno “normali”. Questo perché la crisi ha accentuato una tendenza storica molto forte di diminuzione della partecipazione di uomini tra i 20 e i 54 anni al mercato del lavoro. Questo per gli Usa è un problema fortissimo.
Perché Professore?
Perché significa minor crescita. Infatti, negli Usa si preoccupano perché il Pil cresce del 2%, dato che in passato i periodi di post-recessione sono sempre stati con crescita superiore al 4%. E quindi ci si chiede cosa stia succedendo. La preoccupazione di fondo è che le aspettative del mondo produttivo americano si siano ristrette.
E quanta preoccupazione c’è sui mercati per una vittoria di Trump?
Il candidato repubblicano è senza dubbio un personaggio particolare e rappresenta una grossa incognita. Si trascura però di dire una cosa: come mai metà degli americani voterebbe Trump? Sono diventati tutti matti? Evidentemente no. Oggi il ceto medio non vive meglio di dieci anni fa. E la gente è arrabbiata per questo motivo. Trump sta riproponendo il sogno americano, già dal suo slogan “Make America Great Again”. I suoi elettori vogliono quindi tornare a pensare agli Usa come “land of opportunity”. Una vittoria di Trump non è da sottovalutare. Ma qualora la Clinton vincesse potrebbero non tardare ad arrivare delle richieste di impeachment. Quindi queste elezioni rappresentano davvero un momento molto delicato.
(Lorenzo Torrisi)