Mentre scrivo questo articolo, gli americani stanno cominciando a recarsi alle urne e, quando i più mattinieri di voi lo staranno leggendo, si saprà già chi è il 45mo presidente degli Stati Uniti. So già che è Hillary Clinton e, sono sincero, ho già l’orchite per la retorica da Wwf che dovremo sorbirci per il fatto che si tratta della prima presidente donna degli Usa: non importa che a capo del Dipartimento di Stato abbia fatto cose che avrebbero aperto le porte di una prigione federale a chiunque non portasse quel cognome, siccome lei è donna e Trump è rozzo, allora mettiamo alla Casa Bianca una che ha già detto di voler abbattere Assad e attaccare l’Iran e festeggiamo pure perché porta la gonna.



Ora, al netto della politica estera, già nel mio articolo di ieri sottolineavo come, in realtà, la scelta base della prossima amministrazione Usa, ovvero la politica economica, sarà dettata dalla Fed e dalla contingenza di una recessione ormai inevitabile nel 2017, visto che il ciclo economico sta esaurendosi con sempre maggiore rapidità, come ci mostrano anche gli aggregati di massa monetaria. Ho trovato interessante, però, lo studio pubblicato ieri dalla banca d’affari giapponese Nomura, i cui economisti hanno tracciato il potenziale percorso economico-finanziario che potrebbero seguire gli Stati Uniti nei primi giorni successivi al voto. 



Nello scenario ideato dalla banca d’affari, i leader sono stati associati a una Camera dei Rappresentati controllata dai Repubblicani e da un Senato equamente diviso tra i partiti. Stando alla simulazione, le tempistiche da considerare sono due. Primo, il periodo tra l’elezione e l’insediamento, la cosiddetta Lame Duck session (il periodo dell’anatra zoppa), durante il quale scadrà l’attuale legge di bilancio, ma «non è chiaro se il congresso deciderà per una Continuing Resolution che andrà a terminare poco dopo l’entrata in carica del futuro presidente o per un documento annuale», ha evidenziato il report. In questo caso, non si dovrebbero avere particolari differenze a seconda di chi sarà il nuovo presidente: divergenze che emergerebbero, invece, a partire dal 20 gennaio prossimo, data dell’effettivo investimento a Pennsylvania Avenue. 



Per la banca d’affari nipponica, infatti, nel caso di un’affermazione di Hillary Clinton, «l’economia dovrebbe seguire la direzione intrapresa, con un Prodotto interno lordo in espansione del 2%, una fiscalità senza particolari rivoluzioni, una stabile riduzione della disoccupazione e una graduale stretta monetaria da parte della Federal Reserve». Per Nomura, infatti, la modifica delle politiche fiscali durante il primo anno «sarebbe osteggiata dal Congresso, anche se sussiste una piccola probabilità che si possa scendere a compromessi, nel caso in cui la tassazione degli utili esteri sia oggetto di scambio per maggiori spese infrastrutturali, ipotesi che incontrerebbe, tuttavia, l’opposizione di membri di entrambe le fazioni». 

Scenario ben diverso in caso di vittoria di Donald Trump, visto che Nomura impronta la sua analisi verso una sostanziale incertezza: «Sulla base delle dichiarazioni, sin dai primi giorni la sua presidenza porterebbe a un cambio radicale nelle politiche commerciali ed economiche del Paese», ha sottolineato la banca d’affari. L’agenda del magnate comprende l’espulsione degli immigrati illegali e una linea commerciale più protezionistica, fattori che «danneggerebbero l’economia prima dell’entrata nello Studio Ovale, con i cittadini e le imprese che aumenterebbero la propensione al risparmio di fronte a una crescente insicurezza». 

Si darebbe il via, dunque, a un irrigidimento del contesto finanziario, cosa che potrebbe rimandare la decisione del Fomc su un rialzo del costo del denaro, ma, «come ha insegnato la Brexit, se la svolta dovesse essere brusca il comitato potrebbe optare per un’azione a dicembre succeduta da un approccio attendista», ha avvertito Nomura. Durante il primo anno dovrebbe esserci una crescita economica guidata da una politica fiscale accomodante, con tagli alle tasse e maggiori finanziamenti alle infrastrutture, «anche se la mole dei provvedimenti dipenderà dalla forza dei Democratici al Senato». A ogni modo, Trump avrebbe l’autorità e il supporto parlamentare necessari ad alzare i dazi doganali, elemento che «darebbe una spinta rialzista all’inflazione, accelerando la stretta monetaria da parte della Fed», hanno concluso gli esperti. 

Ora, al netto che il mio sia un ragionamento al buio e quando leggerete queste righe saprete già chi è il nuovo inquilino della Casa Bianca, restando sul puramente teorico, quale delle due direzioni di politica monetaria sarebbe la migliore per l’America e il mondo, limitandoci unicamente all’opzione dirimente del rialzo dei tassi da parte della Fed? Nomura, parlando di un’amministrazione Clinton, si dice certa di un graduale ritorno alla normalità rispetto al costo del denaro, quindi mettendo nel cassetto l’opzione di +0,25% già a dicembre e aprendo la porta a un primo ritocco attorno a marzo per poi, immagino, calcolare almeno altri due interventi nel corso del 2017. Questo garantirebbe al mercato sia azionario che obbligazionario di proseguire il suo trend, oltretutto facendo gioco di sponda con lo scenario ultra-supportivo garantito da Bank of Japan e Bce con i loro programmi di Qe. 

Come vi ho già detto, escludo interventi della Fed a dicembre, perché l’8 di quel mese Mario Draghi renderà noto se il programma di acquisto proseguirà o meno oltre il marzo del prossimo anno e se ci saranno variazioni nei criteri di acquisto (per ampliare la platea di assets eligibili, già oggi scarsi), quindi una doppietta decisionale di questo genere sarebbe davvero troppo da digerire per i mercati, soprattutto a livello di prezzatura anticipata. C’è però un problema, se vogliamo essere seri e parlare di mercato in base alle regole che dovrebbero regolarlo e non alle distorsioni da unicorni che le Banche centrali hanno posto in essere. Se la Fed continuerà a calciare il barattolo, magari utilizzando la Lame Duck session come scusa per non agitare i mercati già tesi per l’Europa, il carico di debito che graverà sulle imprese continuerà a salire, poiché queste capiranno che l’approdo alla Casa Bianca della candidata “presentabile” e tranquillizzante consentirà loro di emettere altre obbligazioni a costo zero per continuare a finanziare buybacks azionari e far continuare a far girare quella giostra infernale chiamata Wall Street. 

Gli indici crescono, i prezzi salgono, i rendimenti restano artificialmente bassi come i flottanti e si può dar vita a un’altra stagione di dividendi e bonus allegri, almeno per tutto il primo semestre del 2017. Al termine del quale, però, quasi tutti gli economisti si attendono l’arrivo della recessione negli Usa: quindi, shock sui mercati fino a quando l’autorità monetaria, leggi Fed, non prenderà di nuovo in mano la partita, ricominciando a stampare o quantomeno a rimangiarsi i minimi aumenti dei tassi fatti fino ad allora. 

Saremo nel Valhalla monetario più totale, perché già oggi il debito pubblico americano – cresciuto esponenzialmente sotto l’amministrazione Obama, forse per questo Matteo Renzi lo ammira tanto – non consente un ritorno alla normalità dei tassi di interesse. E non lo dico io, lo ha detto chiaro e tondo ieri, in un’intervista a Bloomberg, Ed Yardeni, presidente della Yardeni Research Inc. di New York, a detta del quale «uno si mette a tremare se pensa a cosa accadrebbe, se i tassi davvero dovessero tornare alla normalità. Siamo in un vicolo cieco: tutti questi anni ci siamo limitati a calciare il barattolo e, di colpo, la lattina ha colpito il muro. Abbiamo avuto credito facile in quantità enorme grazie ai tassi ultra-bassi e occorre dirci chiaro che un eventuale ritorno a tassi normali vedrebbe l’impatto delle spese per interessi sul debito diventare un problema insormontabile, anche a livello di deficit federale». Inoltre, gli ultimi dati resi noti lunedì dalla Fed riguardo il credito al consumo ci parlano di un aumento a settembre di 19,3 miliardi di dollari contro i 18 attesi, ma, soprattutto, del record assoluto per quanto riguardo i prestiti studenteschi e per l’acquisto di automobili, saliti ai massimi rispettivamente di 1,396 triliardi e 1,098 triliardi. 

Un’economia e una nazione totalmente e unicamente basate sul debito: pensate che un’amministrazione Clinton che lasci la Fed operare con il pilota automatico, visto che Wall Street ha votato per Hillary proprio per evitare gli azzardi anti-bolla sui tassi preannunciati da Donald Trump, sia la risposta a una situazione macro simile? Io credo di no, ma sicuramente le Banche centrali avranno un ennesimo coniglio da estrarre dal cilindro. Una cosa, però, voglio dirvi: la sorpresa più grossa dal voto di ieri potrebbe arrivare dalla Cina, quindi occhi su Pechino per capire cosa ci attende. Il grafico più in bass, ci mostra infatti come, dopo molti mesi di stabilità, lo yuan abbia di nuovo rotto al ribasso contro il basket del China Foreign Exchange Trade System. Questo significa che se oggi, in base al risultato elettorale, il dollaro dovesse apprezzarsi, il cross Usd/Cny potrebbe sfondare a 6,80 e andrebbe a flirtare con il livello post-crisi di circa 6.8270, la zona di allarme rosso. 

E siccome i trading operati ieri ci mostrano investitori molto focalizzati su quel cross valutario, ancorché in maniera disordinata, un potenziale scenario come quello appena descritto potrebbe riaccendere timori per fughe di capitali incontrollabili dalla Cina. A quel punto, sarebbe di nuovo guerra valutaria obbligata. Cosa farà la Fed? E la Bce? E la Bank of Japan? Ve lo ripeto, chi poggerà fisicamente le proprie terga sulla poltrona dello Studio Ovale è l’ultima delle domande che interessa davvero il mercato.