Scudo della Bce in caso di vittoria del No. Otto banche italiane a rischio fallimento se non passerà la riforma. Pil in aumento se vincerà il Sì. Il referendum costituzionale del 4 dicembre è sempre più vicino, ma le notizie degli ultimi giorni, più che parlare dei contenuti della riforma, sembrano evidenziare conseguenze piuttosto forti del voto, anche dal punto di vista finanziario ed economico. Ne abbiamo parlato con Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison.
Cosa ne pensa degli scenari che vengono descritti in questi giorni che precedono il voto?
Sicuramente, soprattutto da parte di alcuni organi di stampa stranieri, si stanno prefigurando scenari che a mio avviso sono assolutamente irrealistici, in particolare riguardo le banche. Anche perché c’è una grande disinformazione sul reale livello dei non performing loans, che vengono sempre misurati con cifre aggregate estese senza tenere conto delle coperture sia iscritte a bilancio che reali, in quanto retrostanti a molti crediti deteriorati. Detto questo, sono personalmente convinto che una vittoria del No darebbe un segnale al mondo di un’Italia che non cambia.
Per quale motivo?
Perché se entriamo nel merito della riforma vediamo che si tratta di arrivare alla soppressione di un bicameralismo paritario che non è presente in nessun altro Paese dell’Ue e su cui in tanti per anni hanno scritto che rallenta il processo legislativo, che rende il Paese meno veloce, meno dinamico. Riportare una serie di materie, come turismo ed energia, in capo allo Stato centrale è una misura di saggezza che in tanti hanno auspicato per anni. La soppressione del Cnel mi sembra più che ragionevole, dato che è un ente assolutamente inutile. Un Paese che vota No rispetto a tutto questo dà al mondo un segnale di non cambiamento.
La riforma, qualora venisse approvata dagli italiani, avrebbe anche degli effetti economici?
Sì, ci sarebbero effetti positivi di due tipi. Il primo è che se passa questa riforma lo Stato diventa più efficiente: i risultati economici magari non si vedranno subito, ma nel medio e lungo termine sicuramente. Il secondo effetto è che si avrebbe un consolidamento dell’attuale Governo e quindi una continuità nella politica economica. Che, nonostante quel che dicono vari critici, ha portato a dei risultati a mio avviso significativi.
Quali nello specifico?
Principalmente tre. Il primo è la crescita del numero degli occupati. Si può dire che sono stati usati gli incentivi per raggiungere questo obiettivo, ma va detto che la politica economica è fatta di scelte sulle spese che producono certi effetti: qui abbiamo avuto certamente una spesa, ma i risultati sono rilevanti, visto che è stato recuperato il 70% dei posti persi dopo la crisi. Il secondo risultato è che i consumi delle famiglie sono cresciuti più del doppio rispetto al Pil da quando è cominciata la ripresa. Questo è un dato molto significativo, perché dimostra che il livello di miglioramento delle condizioni di vita degli italiani va ben oltre il livello del Pil. Infine, sta calando il debito pubblico.
In questo senso, secondo quanto ha scritto Repubblica, i dati Istat di domani (oggi per chi legge) dovrebbero far emergere un calo del rapporto debito/Pil nel terzo trimestre dell’anno…
Confermo che sarà così. Il debito pubblico in valore è cresciuto soltanto dello 0,8-0,9% rispetto allo stesso trimestre del 2015. E si tratta del più basso incremento dal 2003. Il Pil nel frattempo sta aumentando, quindi il rapporto debito/Pil farà segnare un calo come minimo dello 0,7-0,8%, ma potrà anche essere superiore. Questo vuol dire che nonostante il Governo abbia fatto una politica “espansiva” (80 euro, incentivi per le assunzioni, abolizione di Imu e Irap agricola), che avrebbe potuto teoricamente indebolire il controllo dei conti pubblici, il risultato economico si dimostra migliore di quello derivato dalle ricette europee di austerità.
Rispetto a questo quadro positivo, le banche rischiano di regalarci qualche brutta sorpresa?
La situazione delle banche italiane, pur in presenza di un problema significativo di crediti deteriorati, che è molto meno rilevante rispetto a quello che si legge su molti giornali, è stata dettata non solo dalla crisi economica, ma anche dalla cattiva gestione di alcuni istituti, fortunatamente limitati. Quanto meno si è riusciti a tutelare i correntisti. Come è stato sottolineato da autorevoli banchieri, se anziché svendere i Non performing loans li si gestisce con saggezza tenendo conto del rialzo dei prezzi degli immobili e del miglioramento delle coperture retrostanti molti crediti deteriorati, si può riuscire a rientrare. Molto più grave è il problema dei derivati in pancia a tante banche europee.
Crede che invece un certo clima di incertezza internazionale, anche dopo l’elezione di Trump, possa danneggiare la crescita del nostro Pil?
Non credo e spero di no. Anche perché stiamo assistendo a una trasformazione importante. I dati ci dicono che gli italiani stanno consumando meno quantità, ma stanno facendo consumi nelle stesse proporzioni in cui cresce il Pil nominale. Ciò vuol dire che anche dal lato della produzione la nostra manifattura sta producendo meno quantità e più valore, che è una cosa che tutti gli economisti hanno sempre auspicato. Stiamo producendo beni ad alto valore aggiunto, più tecnologia.
Questo cosa comporta?
Stiamo producendo valore a tassi di crescita più alta degli altri paesi e stiamo producendo quantità a tassi inferiori. Se avessi un’azienda che con lo stesso numero di addetti fattura di più, pur producendo minori quantità, mi riterrei più soddisfatto che non produrre più quantità con il valore che non cresce. Questi segnali dimostrano che il sistema italiano sta uscendo da questa crisi senza un pezzo, rappresentato dalle aziende che hanno chiuso, ma quelle rimaste stanno producendo più valore di prima. E questo lo interpreto come un cambiamento strutturale molto positivo che speriamo possa andare avanti nei prossimi mesi e trimestri.
(Lorenzo Torrisi)