Guiderà pure un governo elettorale, ma il nuovo inquilino di palazzo Chigi si troverà a dover sbrogliare tante di quelle matasse da far tremare i polsi anche a un governo di legislatura. Matteo Renzi, infatti, se ne è andato lasciando una catena di incompiute. Ci sono le riforme non realizzate (a cominciare da quella costituzionale) che pesano anche sul bilancio pubblico: per esempio, bisogna trovare i soldi per le province. Poi ci sono quelle solo iniziate, si pensi alla Pubblica amministrazione che porta con sé il nuovo contratto degli statali: stipendi e assunzioni sono congelati dal 2010 (quando al Tesoro c’era Giulio Tremonti), una cosa è sbloccarli all’interno di un cambiamento che porti più efficienza, un’altra è aprire le cataratte della spesa pubblica. Molte sono anche le riforme da completare, compresa la più importante, il Jobs Act. Infine, ultima, ma certo non per importanza, c’è la crisi bancaria.



Non si può pensare che un governo comunque provvisorio tappi tutti i buchi lasciati aperti da Renzi il quale s’illudeva di poter tirare avanti fino al 2018 (e forse anche oltre). Ma non si può nemmeno varare un esecutivo che non sappia affrontare le emergenze più gravi. E allo stato attuale, banche e conti pubblici vengono prima di ogni altra cosa.



Non sappiamo ancora se il Monte dei Paschi di Siena sarà nazionalizzato (più o meno surrettiziamente). Certo è che un salvataggio pubblico sembra probabile. Le ipotesi in campo sono diverse. La più blanda per i contribuenti è che il governo offra una garanzia all’aumento di capitale attuato secondo il piano JP Morgan-Mediobanca. Un ombrello pubblico di 4-5 miliardi sufficiente per tenere dentro i fondi d’investimento, a cominciare da quello del Qatar, e per tranquillizzare (forse) i quasi 40 mila detentori di obbligazioni subordinate che rifiutano di convertirle in azioni. Se non basterà, allora c’è il piano B, cioè l’intervento diretto del Tesoro che potrà avere diverse modalità. La più gettonata è l’acquisto dei bond subordinati venduti al dettaglio, diventando così azionista con il 20-30%, insieme ai soggetti privati che partecipano all’aumento di capitale. Il valore delle obbligazioni rimasti ai privati oggi è circa 2,5 miliardi di euro. Si vedrà quale sarà il loro prezzo.



La terza ipotesi, la peggiore, è che i sottoscrittori alzino bandiera bianca e il Tesoro debba tirar fuori tutti i 5 miliardi necessari per salvare il Montepaschi. Sarebbe una soluzione disastrosa per vari motivi. Il primo è che innescherebbe inevitabilmente una reazione a catena. Perché a Siena e non nel Veneto? La Popolare di Vicenza e Veneto Banca non stanno molto meglio e il fondo Atlante ha esaurito le sue risorse. E la Cassa di Risparmio di Genova? Malacalza, azionista di riferimento, dichiara che ce la farà a raddrizzare la situazione, ma resta in bilico. E potremmo continuare. Non solo. L’intervento diretto dello Stato, secondo le norme europee, porta con sé il bail-in. Si parla di indennizzare i piccoli obbligazionisti. A quali condizioni? E perché fare al Montepaschi quel che non è stato fatto nelle quattro banche del Centro Italia messe in liquidazione? Difficile che un governo elettorale riesca a resistere alle pressioni degli elettori. Tanto più in tempi di demagogia crescente.

Chi, come il Movimento 5 Stelle, aveva gridato “nemmeno un centesimo alle banche” e oggi invoca il salvataggio pubblico, trascura il piccolo particolare che tutti i contribuenti vengono chiamati a pagare gli errori di pochi, banchieri incapaci o truffaldini, e risparmiatori incauti che vogliono privatizzare i guadagni e pubblicizzare le perdite. Soprattutto nascondono che tutto ciò andrà ad aumentare il debito pubblico.

L’Unione europea ha già avvertito che a primavera sarà necessaria una revisione della Legge di bilancio e, quasi certamente, una “manovra aggiuntiva”. Intanto la crescita è inferiore alle stime del governo, e poi gli impegni presi da Renzi alla vigilia del referendum o saranno fatti cadere oppure porteranno un ulteriore aggravio della spesa corrente. Difficile fare cifre a questo punto; difficile e inutile perché di qui ai prossimi mesi, con un clima politico surriscaldato, i partiti che vogliono una resa dei conti saranno spinti a spendere e spandere.

Il professor Mario Monti ha votato No al referendum per protesta contro un Renzi spendaccione, ma forse non ha ben calcolato quanto verrà dilapidato con l’ordalia elettorale innescata dalla vittoria della coalizione alla quale ha dato fiducia. Certo, Mario Draghi tiene ancora aperto l’ombrello, tuttavia l’acquisto di titoli pubblici si ridurrà e il clima elettorale in Germania non gli consentirà di fare uno strappo alla regola e aiutare l’Italia. C’è chi già prevede che Roma verrà costretta, chiunque sieda a palazzo Chigi, a chiedere aiuto al Fondo salva-Stati. Inutile fare i gufi proprio adesso, ma una cosa è certa: il presidente Mattarella conosce bene le incognite della difficile equazione che è chiamato a risolvere.