E’ curioso che il blitz di Vivendi su Mediaset sia maturato nelle ore del debutto come premier di Paolo Gentiloni: ministro delle Comunicazioni nell’ultimo governo Prodi e autore di una (parziale) riforma del sistema televisivo in Italia. Silvio Berlusconi definì “banditesco” il Ddl Gentiloni: che monitorava più strettamente le possibili posizioni dominanti, aboliva la torta pubblicitaria del Sic creata dalla legge Gasparri, fissava il divieto di cumulo giornali-tv e tentava un primo colpetto di piccone al rigido duopolio, obbligando sia Rai che Mediaset a trasferire una rete ciascuna sul digitale. La stessa ipotesi di trasferire il controllo della Rai a una fondazione guardava all’avvio della sua privatizzazione e alla sua evoluzione verso una logica di vero “servizo pubblico”.



Dieci anni dopo – a bocce ancora più o meno ferme – una breve dichiarazione di Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo appena confermato, (“inappropriato” il rastrellamento del 20% di Mediaset da parte di Vivendi) è stata la prima presa di posizione assoluta del governo Gentiloni dopo i discorsi d’insediamento del premier. Una posizione molto interlocutoria: a conti fatti il minimo dovuto. Il padrone di Mediaset continua a essere (pur in conflitto d’interesse) il leader di una forza parlamentare e le antenne di Cologno Monzese sono tuttora pilastri di un duopolio “para-pubblico” nella tv commerciale nazionale. Un silenzio totale da parte del governo – abbinato all’escalation di resistenza dichiarata da Berlusconi – avrebbe potuto generare equivoci. Ora Vincent Bolloré – mastermind dell’ingresso di Vivendi in Telecom e ora dell’operazione Mediaset – sa di dover fare i conti anche con Palazzo Chigi, ma anche di potercisi confrontare: e non è detto che ciò rappresenti una garanzia per Berlusconi (esattamente come il fascicolo aperto dalla Procura di Milano per presunto aggiotaggio di Vivendi odora di paradosso insidioso per Fininvest).



I fatti dicono nel frattempo che Bolloré è attivo in questa fase su tutti i grandi dossier finanziari/industriali aperti in Italia. Come azionista di riferimento di Telecom può deciderne l’integrazione internazionale (in prima battuta con il gigante transalpino Orange, tuttora nell’orbita dello Stato); oppure può mantenerne una relativa “italianità”: naturalmente a patto che cessi l’emarginazione sostanziale cui il governo Renzi ha relegato Telecom, privilegiando Enel per gli investimenti del piano nazionale Banda Larga. Con l’assalto a Mediaset – non a freddo, ma originato da uno scontro sulla vendita di Mediaset Premium a Vivendi – il finanziere bretone si candida ridisegnare l’industria televisiva in Italia, contigua alle tlc: e lo fa con una proposta industriale e con finanza di mercato. Non da ultimo, Bolloré è socio-pivot in Mediobanca, tuttora cassaforte delle Generali su cui sembra soffiare ogni giorno di più il vento dell’interesse del gigante francese Axa (da cui proviene il Ceo del Leone, Philippe Donnet). In Piazzetta Cuccia i soci francesi sono il contrappeso di UniCredit, al cui vertice giusto ieri un amministratore delegato francese (Jean Pierre Mustier) ha annunciato un maxi-piano di rilancio: secondo alcuni osservatori orientato a una successiva aggregazione con il colosso Société Générale.



Potrà un governo di transizione, in un’Azienda-Italia tuttora molto debole, alzare le barricate su tutti i fronti? E’ difficile, forse addirittura impossibile anche su un singolo fronte. Tanto più che il raider francese si è già fatto carico (industriale, occupazionale) di un fallimento (finanziario e industriale) italiano come la privatizzazione Telecom. E quale sarebbe l'”interesse nazionale” da difendere in un duopolio nazionale obsoleto sul mercato ma anche sul piano politico? Il canone Rai è notoriamente il tributo più impopolare e la denuncia del conflitto d’interesse del Cavaliere è stata l’istanza politica strutturale di un centrosinistra ripetutamente battuto alle urne e spesso a corto di proposte politiche.

A differenza del grande amico Bernardo Caprotti, da poco scomparso, Berlusconi è ancora vivo e non è noto se abbia depositato un testamento in cui dichiara che “Mediaset non deve mai essere ceduta a Vivendi” (e non è scontato che il dettato di Caprotti sulla non vendibilità di Esselunga alle coop italiane sia vincolante per gli eredi). Invece la “lunga vendita” del Milan e il contemporaneo rafforzamento di Mondadori con Rcs Libri, hanno lasciato intendere che Berlusconi, ultra 80enne e malato di cuore, stesse accelerando le riflessioni sul portafoglio Fininvest: fors’anche dopo qualche confronto con la primogenita Marina.

Nel frattempo, da lunedì 28 novembre la rude scalata di Bolloré ha fatto guadagnare il 50% a Mediaset in Borsa: ieri sera il 38% detenuto da Fininvest valeva poco più di 1,5 miliardi. Mezzo miliardo recuperato in due settimane grazie all’effetto.Bolloré: la scalata è certamente ostile verso la società, ma lo è anche verso il suo padre-padrone? Qual è il prezzo finale a cui può arrivare Bolloré? Ci sono spazi di mediazione personale (attraverso il comune amico di sempre, il produttore franco-tunisino Tarak ben Ammar)? Mediobanca – altra istituzione-Paese marginalizzata da Renzi – può intervenire per una soluzione concordata? Può far valere il suo pacchetto di minoranza in Rcs, guidata oggi da Urbano cairo, formatosi in Mediaset? E  qual è l’atteggiamento di Rupert Murdoch, “convitato di pietra” con la sua Sky, già candidata partner di Telecom all’epoca del Prodi 1?

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