Il Monte dei Paschi di Siena è stato per anni la più politica – anzi partitica, anzi correntizia – delle banche italiane pseudo-privatizzate con quell’artificio societario che fu l’ideazione delle Fondazioni bancarie. Trasferendo il potere sulle banche dallo Stato – che lo aveva esercitato spesso anche male, ma comunque sotto la responsabilità diretta del governo, e quindi del Parlamento e in ultima istanza del popolo italiano – agli enti locali, i legislatori avevano abdicato al diritto-dovere del controllo sul credito da parte di tutta la nazione, attuando di fatto una riforma costituzionale che indeboliva il presidio affidato dallo Statuto allo Stato nell’articolo 47: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”. Non era più dunque la Repubblica a esercitare questa tutela, direttamente come prescritto; ma tramite quelle articolazioni giurisdizionalmente diverse che sono Regioni, Province, Comuni.



A Siena la politica locale, monopolizzata dal Pd, ha fatto “carne di porco” della banca. E a essa va la responsabilità morale delle tante scelte sbagliate compiute negli anni, dall’acquisizione a prezzo stratosferico della Banca del Salento in poi, fino al colpo di grazia, l’acquisizione sballata dell’Antonveneta, con la benedizione interessata dell’advisor Mediobanca e la collaborazione della JpMorgan. Ora che il governo Renzi, con crudele paradosso, ha affidato proprio a Mediobanca e a Jp Morgan la gestione del tentativo di salvataggio dell’istituto, si è assistito a una serie di conati fallimentari. Ieri, il consiglio del Monte ha deciso di tentare il tutto per tutto, per cogliere la scandenza-capestro imposta dall’Europa, ricapitalizzare la banca entro il 31 dicembre di quest’anno. Pur non avendo trovano né “l’anchor investor” (investitore-guida) pronto a sottoscrivere quote inoptate, né le banche disposte a garantire l’operazione, l’ha lanciata, nella misura necessaria (ma chissà se sufficiente: l’ultima ispezione della Bce dapprima dissimulata dall’istituto e poi ammessa farà sapere i propri esiti solo tra molte settimane) di 5 miliardi di euro, contro i 605 milioni dell’attuale capitalizzazione borsistica, e con una ripartizione sfidante per il “pubblico indistinto” al quale è destinato per il 35%, di cui il 30% agli attuali azionisti della banca; il prezzo massimo è fissato in 24,9 euro per azione e quello minimo di un euro. Il testo deve andare agli investitori istituzionali. A trovarli.



Il consiglio spera, e conta, sulla conversione volontaria dei bond subordinati da parte dei loro portatori, che la Consob ha autorizzato a tarda sera: operazione conveniente se ci sarà qualche socio forte disposto a mettere soldi veri Ed è questo il punto. Dei 250 incontri fatti dal management scelto dall’ex premier Matteo Renzi su indicazione della Jp Morgan per trovare l’anchor-investor, nessuno ha detto sì, solo il fondo nazionale di investimenti dell’Emirato del Qatar avrebbe detto “ni”, ma non ha ancora sciolto la riserva. Lo farà?

Soprattutto, non si sa cosa farà lo Stato, che ha il 4% del capitale del Monte, oggi. Ha detto il presidente della Confindustria Vincenzo Boccia – che della confederazione degli industriali era stato responsabile del credito: “Quando il mercato percepisce un piano industriale vero, non solo finanziario, assorbe e garantisce tutti gli aumenti di capitale necessari. Se questo dovesse accadere nel caso Mps, sarei il primo a esserne contento, ma noi oggi siamo chiamati a fare i conti con la realtà e abbiamo il dovere di garantire che, comunque vada, lo Stato ci sarà e tutelerà il sistema e il risparmio”.



Ha ragione Boccia. Lo Stato deve farsi garante. La storia non si cancella, è colpa della politica se il Monte è sull’orlo del baratro, sia la politica a compiere il gesto definitivo per avviare il salvataggio. Con i soldi dell’erario pubblico, nostri? Sì, purtroppo: ma è meglio questo che distruggere ulteriore valore economico del Paese. Se lo Stato italiano non interviene, se la Jp Morgan fa soltanto l’advisor e si prenota per questo un pagamento di oltre 630 milioni di commissioni, superiore all’attuale valore di mercato di tutta la banca, ma si guarda bene dall’investire nella banca che dovrebbe “piazzare” ad altri investitori, perché dovrebbero fidarsi degli azionisti privati?

Ciò detto, non è escluso che gli arabi accettino. Non sicuri di fare un affare, ma sicuri che, in un mondo nuovamente bipolare, con Usa e Russia di nuovo amici, il loro abnorme potere finanziario fondato su una materia prima, il petrolio, in declino storico di valore, sta per finire, ed è meglio per loro investire oggi altrove e su altri asset i soldi che ancora hanno piuttosto che lasciarli evaporare pian piano. D’altronde, gli arabi – del Qatar e non solo – ritengono ancora di aver diritto di scegliere il meglio, e sanno bene che non soltanto il mondo, ma anche la piccola Italia abbonda di opportunità d’investimento migliori. O se non altro meno rischiose. 

Giorni cruciali e drammatici per il Monte. Chi oggi, al vertice del governo, ha nelle mani la possibilità di proteggere l’istituto e non lo fa, si accolla una grande responsabilità, non solo morale.